Da quando il Codice Rosso è stato approvato lo scorso luglio, il cosiddetto revenge porn è diventato reato. Nonostante le novità introdotte dal provvedimento siano state molto spesso definite insufficienti, l’istituzione di questo nuovo crimine ha rappresentato una grande conquista in tema di diritti e, soprattutto, di diritti delle donne.
Il revenge porn consiste nella pratica di condividere, all’insaputa della vittima – molto spesso una donna – foto e video privati di nudi o atteggiamenti sessuali, in genere a danno di ex partner, alla ricerca, come dice il nome, di una vendetta. Rientra, quindi, nella lunga lista di pratiche messe in atto da uomini possessivi e vendicativi con il preciso intento di nuocere l’altro, violandone la sfera privata. Ma il danno a chi subisce non si ferma a questo. Attraverso i mezzi digitali e i social media è diventato estremamente semplice diffondere i contenuti mediali, ormai divenuti in grado di raggiungere un numero molto elevato di persone. Quella che le vittime finiscono per subire, allora, dopo la violazione della propria intimità, è la gogna pubblica. I video e le foto vengono condivisi e raggiungono migliaia di utenti. Utenti che, dopo aver attentamente usufruito dei contenuti, ne condannano gli ignari protagonisti, contribuendo di fatto alla violazione dei corpi e dell’immagine di altre persone.
La legge al momento garantisce una pena per gli aggressori, riconoscendo come reato la violenza perpetrata, ma non tutela le vittime, non davvero. A dimostrarlo è un recentissimo caso avvenuto a Brescia. Una donna, impiegata in alcuni studi oculistici, aveva denunciato la pubblicazione di alcuni video privati in possesso di un suo ex. La Procura di Brescia ha iscritto tre persone nel registro degli indagati. In seguito alla denuncia, però, alla donna non è stata in alcun modo garantita tutela: uno degli studi per cui lavorava l’ha licenziata per danno di immagine. Il datore di lavoro, stanco di ricevere chiamate da parte di uomini in cerca di un appuntamento con lei, ha deciso di eliminare il problema. Non prima, però, di aver commentato i video, esprimendo la sua opinione sull’esibizionismo dell’ex impiegata, confermando, quindi, di averne presa visione.
Che il corpo di una donna diventi un’arma da usare contro di lei è una pratica vecchia di migliaia di anni, che lentamente – e poco incisivamente – si cerca di abolire. Che le violazioni diventino virali è una nuova imminente minaccia che il mondo digitale ci ha regalato. Ma che una persona venga giudicata per la propria intimità, che la sua vita pubblica dipenda da un privato scoperchiato, da un’intimità che ha perso il diritto di essere personale, è l’abominevole minaccia di una società che non riesce a non imputare le colpe alle vittime e che tende a sottovalutare le colpe degli aggressori.
Nella legislazione italiana sono state infatti introdotte condanne e provvedimenti per chi diffonde questo tipo di materiale, ma non vengono messi in pratica per tutti quegli utenti che, invece, contribuiscono alla circolazione del materiale e che ne usufruiscono volontariamente. Non si punisce, insomma, chi guarda un video rubato, chi finge di non sapere che una visualizzazione in più non si perde nel mare di visualizzazioni, ma contribuisce a distruggere la sfera privata di un essere umano vittima di una vera è propria violenza. E, nel pensiero comune, non si prende neanche in considerazione l’idea che anche chi guarda il video, chi sfoglia le foto e chi giudica moralmente è complice di un abuso sessuale e di genere.
In effetti, si tratta di reati difficili da individuare. Allo stesso modo, per esempio, si può punire chi distribuisce contenuti rubati online, ma è impossibile condannare tutti gli utenti che fanno uso di musica e film piratati. Ma è anche vero che la violazione dei diritti di proprietà di un prodotto non ha – o non dovrebbe avere – la stessa valenza della violazione dell’intimità di una persona. Soprattutto quando le numerose vessazioni rovinano le vittime, portandole addirittura a togliersi la vita. Non sono pochi i casi di esistenze rovinate dalla gogna pubblica, dalle parole di scherno che circolano senza freni, alimentate dalle migliaia e migliaia di visualizzazioni di video e foto che, in fondo ognuno lo sa, nessuno dovrebbe guardare. E non dovrebbe essere necessario ricordare i più tragici casi di revenge porn per capirne la gravità.
Ma, alla luce di casi del genere, come può un curioso che voleva solo vedere non essere complice di quella violenza? Come può non macchiarsi di una fetta di una colpa molto più grande? Sapendo che qualcuno si è tolto la vita perché tante persone, tutte insieme, hanno fatto la stessa innocente, gravissima azione di premere play, o la stessa ricerca online di un video privato, come può nessuno di loro essere responsabile di quell’abuso, di quel licenziamento o di quella morte?