«Ho ammazzato mio marito»: inizia così la storia di Milena Quaglini, con una telefonata ai carabinieri e l’ammissione di una colpa. È il 2 agosto del 1998, la notte è trascorsa afosa, insonne, agitata come poche. Fuori, sul balcone di un anonimo appartamento in provincia di Pavia, un cadavere giace avvolto in un sacco della spazzatura, poi in un tappeto, coperto a sua volta per non destare sospetti. Dentro, in quello che si è trasformato nel luogo del delitto, ora insospettabile camera ardente, una donna si muove irrequieta, cambia le lenzuola sporche di sangue, si lava il viso, le mani, mette in ordine gli oggetti e le idee. Sveste la camicia da notte gialla, a fiorellini, e indossa i panni della normalità. Ma niente, da qualche ora, è più normale. Niente, da qualche ora, è come dovrebbe essere.
A pochi passi da lei, giovani sussurri e risatine bisbigliate annunciano il buongiorno delle sue bambine. Non sanno di essere orfane di padre, che la donna che la sera prima ha lavato loro i denti, messo il pigiamino e rifatto il letto ha ucciso un uomo, che quell’uomo è ancora lì, nella stessa casa, nella stessa afa, nella stessa irrespirabile inquietudine. Lo sapranno di lì a breve, quando la loro mamma, ormai sfinita, chiamerà la stazione dei carabinieri di Stradella pregandoli di andare a prenderla. Non voleva ucciderlo – ripeterà – voleva solo che fosse meno cattivo, meno prepotente. Voleva soltanto fargli paura.
Litigavano spesso, Milena e suo marito. Si erano conosciuti qualche anno prima, quando lei – vedova e già madre di un maschietto – aveva trovato lavoro in un centro commerciale e lui se ne era invaghito. Non ci avevano messo molto per sposarsi e nemmeno per arrivare a rendersi la vita impossibile: il Mario, come lo chiamava lei, era un uomo geloso, ossessivo, convinto che ogni azione di sua moglie potesse portarla al tradimento. Era instabile e aggressivo, lavorava poco e male. Il più delle volte, tornava a casa ubriaco e senza una lira. La riempiva di botte, la insultava, beveva, approfittava di Milena anche quando Milena non ne aveva voglia. Si erano presi e lasciati, persi per un po’ per poi tornare a cercarsi.
Non era amore, il loro, era qualcosa di più simile alla disperazione, al masochismo, a quella strana forma di autolesionismo che porta – più spesso di quanto si creda – due persone a stare insieme, a sopportarsi per odiarsi, a perdersi nella tossicità di una relazione che è espiazione. Persino a uccidersi. Come la Milena con il Mario. Prima, quando lei tenta di togliersi la vita, dopo quando lei la toglie a lui perché tutti e due al mondo non si poteva stare.
È da quella telefonata, da quel primo pomeriggio del 2 agosto del 1998, che Elisa Giobbi sceglie di raccontare questa storia. La storia di una donna che si ribella a un uomo, alla sua violenza reiterata, sessuale e psicologica, alla sua gelosia che le impedisce una vita normale, all’idea malsana che lavorare, per sua moglie – che porta avanti la famiglia –, significhi tradirlo. La storia di una donna che cerca amore e, invece, trova soltanto sopraffazione. A lei, su sua confessione, verranno attribuiti tre omicidi. Tutti ai danni di uomini violenti.
La narrazione si dipana tra le mura del carcere femminile di Vigevano, dove Milena è in attesa di sentenza per l’assassinio – il terzo, in ordine cronologico – di Angelo Porrello, all’epoca dei fatti suo convivente. Qui la voce di questa giovane donna riempie le stanze della memoria, le arreda secondo la sua prospettiva e i suoi colori, come fossero quadri, quelli che ama dipingere sin da bambina, sin da quando suo padre le diceva che con l’arte non ci avrebbe campato mica.
La Milena narratrice e protagonista ripercorre, in modo a volte confuso, a volte più dettagliato, le tappe della sua fragile esistenza, rivendicandone i pochi momenti felici, il suo grande amore, l’Enrico, il D., il frutto di quella relazione piena e sfortunata, i dettagli teneri e persino ridondanti. Non risparmia, però, nemmeno i momenti più bui e feroci: in quelli, come se a parlare fosse un’altra, la lingua cambia, si fa secca, dura, estranea. La Milena omicida prende il posto della donna tranquilla e gentile che parla con educata cortesia, piacevole e sensibile come quando dipinge i suoi paesaggi ad acquerello. Il tema del doppio – come suggerito dalla copertina e dalle perizie a corredo – si sviluppa e confonde. La stessa ragnatela che la avviluppa si fa presto lavoro certosino di lei, vittima e carnefice. Ragno e preda. Assassina e assassinata.
Quello di Milena Quaglini è uno dei casi di cronaca più noti in Italia. Una vicenda più unica che rara, nel panorama giudiziario nostrano – ma non solo –, che vede una donna vestire i panni dell’omicida, scomodando il termine desueto – non perché obsoleto, ma perché scarsamente usato – di androcidio, l’uccisione di un uomo nel caso in oggetto non in quanto tale, ma in quanto maschio prepotente e torturatore. È questo, almeno, ciò che succede tra le pagine di Milena Q. – Assassina di uomini violenti, nella ricostruzione fedele, ma non pedissequa, di una storia di sofferenza, miseria e abuso triste come quella narrata.
Tra queste pagine, Elisa Giobbi, in collaborazione con l’avvocato che ha seguito la vicenda, restituisce, in prima persona, l’intricata serie di pensieri omicidi e suicidi che, a cavallo tra gli anni Novanta e i primi Duemila, hanno affollato la mente de la vedova nera del pavese, come la ricordano le stampe. Un viaggio tra i meandri di un’anima offuscata dal dolore, dall’alcol e dal ricordo di un’infanzia tra botte e umiliazioni non così dissimile da una vita adulta arida di affetto.
«Sei nata storta», le urlava suo padre quando era appena una ragazzina. «Sono nata storta», si ripete ancora Milena ormai moglie, madre, amante, talvolta per giustificarsi, talaltra per colpevolizzarsi. Il suo lungo monologo – intervallato da documenti e perizie ufficiali – restituisce al lettore un’indagine cruda, al contempo sincera, persino tenera, sulla natura umana, sulla responsabilità e il senso di colpa, sull’istinto di sopravvivenza e la violenza di genere. Sulla malattia di una relazione che può cambiare il volto di chiunque, anche se quel chiunque – come diranno i tanti che conoscono Milena – non ammazzerebbe mai. E, invece, uccide. Non una, non due, ma ben tre volte. O, forse, anche di più.
Da questa indagine emerge tutta la fragilità della mente umana, la facilità con cui una vittima può diventare carnefice, un dolore trasformarsi in depressione, l’assenza di amore in un peccato da espiare. Ed è da qui, da questa indagine, che prende vita L’Anguilla, la collana di narrativa italiana di Mar dei Sargassi Edizioni (www.mardeisargassiedizioni.com).
Milena Q. – Assassina di uomini violenti è, infatti, il primo titolo dato alle stampe con il nostro marchio e da oggi, 14 febbraio, è finalmente in libreria. Un testo da noi fortemente voluto per la potenza della sua narrazione, per la verità di un racconto che non è soltanto una triste vicenda di cronaca, ma l’epilogo di una vita che, forse, avrebbe meritato più attenzione.
Gli omicidi attribuibili a Milena mi sono sembrati ascrivibili a una forma estrema, anche se inconsapevole, di ribellione a un patriarcato cieco e violento. E raccontare la sua storia significa portare alla luce una verità scomoda che in qualche modo non smette di riguardare tutti quanti, scrive Elisa Giobbi nelle sue considerazioni finali. E, forse, senza cercare giustificazioni o spalleggiamenti, senza prestare il fianco a chi potrebbe vedere in queste frasi delle motivazioni valide ai violenti crimini commessi, ha ragione.
Milena è stata una ribelle. Ha fatto male, è vero, ma facendosi sempre male per prima. Ha condannato, condannandosi. Eppure, nemmeno questo, nemmeno la sua brutalità è bastata a restituirle una qualche dignità di donna. Sessualizzata persino nella ricostruzione della sua personalità disturbata, nei dettagli pruriginosi del suo aspetto. Angelo sterminatore: è così che la ricordano le cronache. Ma Milena non è stata un angelo e, in qualche modo, nemmeno una sterminatrice. Non ha ucciso per il gusto di farlo, ha ucciso perché non ne poteva più di subire.
Per questo la strumentalizzazione che ne fanno oggi le destre, taluna stampa e quei gruppi di rivendicazione maschile che fanno del suo caso un esempio in risposta ai tanti, troppi femminicidi che ogni giorno riempiono le pagine dei quotidiani italiani, le farebbe male. Perché non basta una donna che uccide un uomo a livellare le cose, a smontare la realtà dei fatti di una società costruita a uso e consumo patriarcale. Non basta a giustificare la violenza sistemica che – sempre a rigor di vocabolario – il sesso forte esercita sul sesso debole. È un errore, è mera speculazione, è riportare Milena in vita per abusarne di nuovo.
Milena Quaglini è morta suicida in carcere, a poco più di quarant’anni, mentre stava scontando la massima pena. Eppure, più che la morte, la vera condanna, per lei, è stata la sua esistenza. Per questo, per noi, la sua è la voce dei confini, una delle tante rimaste troppo a lungo inascoltate.
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