Jeremy Atherton Lin, scrittore e giornalista asioamericano, pubblica questo libro molto peculiare (in Italia, edito minimum fax), un po’ saggio antropologico, un po’ diario, un po’ ricostruzione storica, concentrandosi sull’analisi romantica dei suoi gay bar preferiti per porci e porsi una domanda: cosa significa essere gay e avere un luogo dove poter essere gay in libertà?
Lin racconta la sua esperienza in prima persona con una narrazione in forma di viaggio a tappe: parte da Londra per poi saltare a Los Angeles e a San Francisco, analizzando la storia e l’evoluzione di luoghi realmente esistiti (e, in alcuni casi, ancora operativi) che hanno rappresentato un safe space per tutta la comunità gay e LGBTQ a cavallo tra gli anni Settanta e oggi.
Senza disdegnare la descrizione cruda e dettagliata delle sue esperienze sessuali, l’autore scrive della difficoltà di trovare una propria dimensione in un gruppo che, in teoria, avrebbe dovuto essere accogliente e che, invece, sapeva diventare respingente ed elitario. Nella stessa comunità gay londinese o losangelina, ad esempio, l’incasellamento di un uomo omosessuale in una determinata categoria sembrava a Lin una gabbia nella gabbia, con la conseguenza di sentire un obbligo di autodefinizione, di catalogazione, che non rappresentava appieno la sua personalità.
Di qui le domande: cosa significa essere gay? Come si deve comportare un “vero” gay? Quali sono i suoi luoghi, quelli in cui può esprimere se stesso senza subire maltrattamenti, abusi e discriminazioni? In alcuni casi, Lin ci risponde raccontandoci di gay bar che effettivamente hanno rappresentato un faro sicuro per la comunità; in altri, si domanda se chiudersi in quattro mura non sia un’autoreclusione ancora più discriminante e segregante, ché andava bene essere gay purché non alla luce del sole.
Grazie all’autore allora veniamo a conoscenza di quali siano queste categorie: nella lingua inglese esiste un vero e proprio slang per definire e distinguere un “gay dall’altro”, cosa che in italiano manca. Leatherman indica chi ama vestirsi in pelle richiamando il mondo fetish; twink è un aggettivo per quei ragazzi giovani e attraenti che hanno un aspetto adolescenziale, magri e longilinei; queen, all’opposto, definisce quelle persone di sesso maschile, omosessuali o transessuali, dall’abbigliamento eccentrico, colorato e dal trucco vistoso, che spesso di esibiscono in spettacoli di varietà; bear è una categoria in cui rientrano solitamente uomini dalla corporatura robusta che però risultano affettuosi e dolci; tweaker per chi fa uso di metanfetamine; pee-shy per quegli uomini che hanno vergogna a urinare vicino ad altri uomini.
Leggendo il libro mi sono chiesta, e se lo è chiesto anche Lin, se questa rigida struttura non sia una discriminazione nella discriminazione: un uomo omosessuale deve per forza presentarsi palesando la categoria a cui appartiene? Lo stesso vale per le donne: una donna lesbica deve per forza essere o butch (dall’aspetto mascolino) o femme (dall’aspetto iper-femminile)?
Lin dice: Se il desiderio è un vento imprevedibile, allora l’identità è un segnavento difettoso che anziché assecondare la brezza punta in una direzione arbitraria – gay, lesbica, bi, etero.
Spesso i gay bar di cui ci parla l’autore si dividevano a seconda della propria clientela: alcuni erano frequentati specificamente da leathermen, altri da queen, ne esistevano alcuni misti, per uomini e donne, ma la categorizzazione prendeva piede persino nello spazio, settorializzando l’offerta e la domanda. Se si aveva voglia di una serata molto spinta allora si andava in un certo gay bar, se si voleva solo flirtare in un altro, se l’intenzione era la ricerca di una promiscuità senza regole si preferivano quei locali che possedevano una dark room. In questo modo, aggregando persone dai gusti simili, si creava certamente un luogo protetto, ma il rischio era quello di dar vita a una classifica di ciò che era meglio e ciò che era peggio e, con questo, di quale gay fosse più cool e di quale fosse “sfigato”.
A questo punto il dubbio successivo che viene fuori è: cos’è in realtà uno spazio gay/queer? E, al giorno d’oggi, dopo che si sono fatti alcuni passi avanti, ha ancora senso parlare di spazi gay? Evidentemente, decenni addietro, la possibilità di recarsi in un posto – un bar, una discoteca, un teatro, un cinema per adulti – legittimava l’esistenza stessa di una comunità che si divideva tra orgoglio e indifferenza. Eppure, queste persone esistevano solo lì?
Il brivido della clandestinità (ricordiamo che la depenalizzazione dell’omosessualità negli Stati Uniti ha abbracciato un periodo che va dagli anni Sessanta – l’Illinois fu il primo stato ad abolire la legge contro la sodomia nel 1962 – fino addirittura al 2003. L’Inghilterra e il Galles lo hanno fatto nel 1967, ciò vuol dire che prima di questa data essere omosessuale era un reato. In Italia, e questo è un grande primato per il nostro Paese, grazie al Codice Zanardelli, nel 1889), poteva certamente essere sinonimo di avventure e divertimento al limite della legalità, ma alla luce del sole queste persone che posto avevano?
Il sottotitolo del libro è Perché uscivamo la notte: le risposte di Lin sono due, la prima è ovviamente riferita alla copertura naturale che il buio offriva a quelle persone che dovevano per forza nascondersi; la seconda, più celebrale, fa capo a una questione amletica. Si usciva la notte per cercare i propri “simili” o per cercare se stessi? E questa ricerca sofferta, questo andare per tentativi, quanto tempo lasciava alla vita? Spesso Lin dice che, durante i suoi anni giovanili, la smania di trovare un posto in cui infilarsi e di autodefinirsi non gli ha permesso di godere appieno delle cose belle che gli succedevano. Chiedersi se fosse gay e che tipo di gay gli ha tolto la semplice azione di vivere la sua vita, come anche equilibrare il suo comportamento tra status (essere omosessuale) e condotta (atteggiarsi come tale).
Si trattava di una responsabilità collettiva: se un gay si comportava male, allora tutta la comunità ne risentiva. Il gay bar, dunque, era al tempo stesso rifugio e gabbia: sì, un luogo in cui esseri liberi di “comportarsi in modo gay”, ma anche una galera autoimposta che impoveriva e categorizzava, trattandosi di un circuito chiuso e obbligatoriamente poco aperto verso l’esterno.
Il libro è una lunga riflessione, non solo per la comunità LGBTQ, ma anche per tutti gli altri. Un modo per cercare di liberarsi da etichette non più utili, per normalizzare ciò che già è “normale” di per sé. In un mondo ideale non dovrebbe nemmeno esistere la necessità di usare questa parola, normale. Lin lo dice per vie traverse, preferendo un racconto malinconico, rabbioso, ma anche molto romantico, per attirarci nel mondo dei gay bar e di ciò che hanno significato per i luoghi e le persone che li hanno vissuti.