Tra Greta Thunberg e M’illumino di meno, l’Italia – e non solo – sembra aver trovato la sua nuova panacea. Non insegnate ai bambini, cantava Giorgio Gaber nel lontano 2003, ma non lontano è il suo messaggio. C’è una carica morale nel discorso della giovane attivista alquanto sovradimensionata rispetto a quelle che possono essere le normali pretese di una ragazzina di 16 anni, benché risultino al tempo stesso così inconfutabilmente condivisibili che nessun adulto di buon senso, a cui prema non lasciare ai propri figli un mondo peggiore di quello che ha trovato, può rimanere serenamente indifferente.
Insomma, un discorso carico di una visione difficile da smontare, anzi perfettamente proiettata verso quel sentimento che nel nostro Paese si è tradotto, da qualche anno, in fenomeni mediatico-sociali come ad esempio quello che ha preso piede attraverso l’iniziativa lanciata dal programma di Rai Radio 2, Caterpillar, dal nome immaginifico e dai rimandi ungarettiani, a noi tutti noto come M’illumino di meno, a cui il discorso della giovane Greta ha dato maggiore giustificazione e nuovo slancio.
Ma proviamo a entrare un po’ più nel merito dei contenuti riportati all’interno dell’orazione che la giovane svedese, paladina dell’ecologically correct, ha tenuto di fronte ai 196 capi di governo convenuti in occasione del summit polacco passato alla storia con l’identificativo di Cop24. Ecco come ha esordito: «Il mio nome è Greta Thunberg, ho 15 anni e vengo dalla Svezia. Molti pensano che la Svezia sia un piccolo Paese e a loro non importa cosa facciamo. Ma io ho imparato che non sei mai troppo piccolo per fare la differenza. Se alcuni ragazzi decidono di manifestare dopo la scuola, immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo veramente».
Già solo una presentazione di questo tipo non può non smuovere i cuori, ancor prima che le coscienze, a dimostrazione del fatto che siamo di fronte a un talento vero, una trascinatrice, un futuro membro di quella classe dirigente che oggi viene invece accusata di non essere in grado di prendere decisioni per il bene dei figli. Peccato che quella a cui Greta si è rivolta non fosse la vera classe dirigente del pianeta, ma solo una folla di esecutori ben pagati e ben confezionati anch’essi, la cui immagine è di volta in volta venduta o svenduta al resto del mondo affinché ci possa essere qualcuno con cui potersela prendere per dare a se stessi una risposta plausibile e identificabile con quel mal di vivere che ci attanaglia da tempo.
Nella parte centrale del suo discorso la giovane attivista svedese ha poi affermato: «Voi parlate di crescita senza fine in riferimento alla green economy perché avete paura di diventare impopolari. Parlate di andare avanti ma con le stesse idee sbagliate che ci hanno portato a tutto questo. Ma a me non importa di risultare impopolare, mi importa della giustizia climatica e di un pianeta vivibile. La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare a fare profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. Molti soffrono per garantire a pochi di vivere nel lusso».
Forse questa è la parte più significativa della denuncia rivolta da parte di Greta ai capi di governo lì presenti davanti a lei. È la parte apparentemente più nascosta di quella medaglia che non si mostra mai, come la faccia scura della Luna, benché si lasci percepire. Fortilizio posto lontano da sguardi indiscreti che è bene non si posino mai su un capitale di privilegi irraggiungibili da parte della base di una piramide solida, inscalfibile, inscalabile e inaccessibile, se non attraverso chiavi retoriche come quella con cui i grandi della Terra si sono voluti mostrare in tutta la loro commozione e magnanimità alle maggioranze che, in occasione della Cop 24, hanno assunto volto e voce di un’adolescente austera, decisa e al tempo stesso tenera quanto basta per colpire dritto al cuore della gente.
La giovane svedese ha quindi concluso il suo discorso con queste parole: «Voi non avete più scuse e noi abbiamo poco tempo. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no. Il vero potere appartiene alla gente». Quella stessa gente che in molte parti d’Italia e del pianeta intero si sta muovendo per organizzare raduni e marce dimostrative nel nome di Greta Thunberg e dei contenuti del suo celebre speach, che ha messo positivamente in crisi le coscienze del mondo produttivo come delle istituzioni e, dunque, anche della scuola. Molti insegnanti si sono infatti sentiti chiamati in causa e in uno slancio tutto emotivo hanno cominciato a darsi da fare per invitare famiglie e studenti a partecipare ai cortei che vanno progressivamente prendendo corpo un po’ ovunque, il che parrebbe essere cosa buona e giusta.
En marche! Potremmo dunque gridare tutti assieme riprendendo lo slogan che ha dato vita e nome al movimento politico messo in piedi dai burattinai che sorreggono i fili e le sorti dell’attuale Presidente francese, Emmanuel Macron. Sì, ma en marche per andare dove? Verso il sacrificio del solito 99% di popolazione mondiale che, come in una guerra, parte per annientarsi in un vicendevole gioco al massacro? Forse no, ma il timore che quell’astuto 1% d’imparruccata disumanità possa continuare imperterrita a custodire i propri vantaggi economici è concreto.
Basta, dunque, con la scienza dozzinale trasmessa via proclami: quel che bisogna fare è tornare a credere nell’istruzione, nella conoscenza, nella scienza insegnata a scuola e all’interno di università che possano finalmente tornare a illuminare il mondo e le nostre teste. Bisogna costruire occasioni d’incontro nei luoghi deputati a farlo, ovviamente anche le piazze lo sono, ma a patto che siano popolate da persone che si radunano spontaneamente per andare alla ricerca di un confronto tra pari e non messe forzatamente assieme, costrette in una gabbia mediaticamente indotta per spennarsi come polli in batteria, in attesa del mangime retorico con cui lasciamo quotidianamente nutrire i nostri pigri sensi.
In altre parole, non si può continuare a chiedere agli affamati di digiunare per provare a risolvere il problema della fame nel mondo, né si può pensare di sconfiggere l’evasione fiscale soltanto multando chi non fa gli scontrini, senza andare a distruggere quei paradisi dove il 99% della vera ricchezza mondiale viene depositata in gran segreto, lontana da tutto e prodotta con gran danno dell’ambiente e dunque di ognuno di noi. Sì, è vero, secondo la leggenda dell’elefante e del colibrì tutti possiamo e dobbiamo fare la nostra parte se vogliamo raggiungere il risultato di vedere la foresta finalmente salva dall’incendio che le abbiamo scatenato dentro, ma ricordiamoci anche che le grandi rivoluzioni del passato sono sempre state fatte decapitando il re, non assecondandone la volontà o prendendosela con i suoi sciocchi e avidi tribuni.
Per concludere, chi potrebbe mai contestare il sacrosanto principio del chi inquina paga, sventolato come un mantra a ogni conferenza internazionale convocata nel nome del contrasto ai mutamenti climatici? La vera domanda sottesa a tale principio, però, e che quasi nessuno di noi si pone mai è in realtà la seguente: chi può permettersi di continuare a inquinare, se non esclusivamente coloro che possono permettersi di continuare a pagare? A spese di chi?
Illuminiamoci dunque d’immenso, non solo di meno, e convinciamoci una volta per tutte che quando il popolo si mobilita in accordo con le proprie élites, è innanzitutto la democrazia a essere messa in pericolo per quanto la protesta abbia il volto dolce di una ragazzina, a cui va in ogni caso riconosciuto il merito di averci fatto finalmente riscoprire il coraggio di una libera rivendicazione all’esistenza, a cui da troppo tempo ci stavamo disabituando.