L’inquadratura totale di un cielo terso, una mano in primissimo piano che entra da destra ad accarezzare il capo di un cavallo che, scopriamo, si trovava qualche centimetro più in là. I nitriti dell’animale li percepiamo fortissimi, come se fossimo proprio lì accanto. Sembra una scena serena e bucolica. Subito dopo, però, vediamo, sempre nella stessa inquadratura, il volto a cui appartiene quella mano, e cioè Kevin Costner. Il suo viso perde sangue. Con uno stacco scopriamo finalmente il contesto: un pick-up ribaltato e più avanti una motrice con una persona morta nell’abitacolo mentre la testa del cavallo sporge dall’inferno di lamiere contorte. Intorno soltanto asfalto desolato in una bellissima regione di montagna. Costner, contrito, spara al cavallo per evitargli ulteriori sofferenze, poi si allontana barcollando, prende il cappello da cowboy e se lo calca in testa. In sottofondo si odono le sirene e si vedono arrivare le auto della polizia. Questo l’incipit di grande impatto del primo episodio della serie Paramount Yellowstone, la cui prima stagione è disponibile integralmente, da aprile e in italiano, su Sky Atlantic.
In pochi minuti sono state già stabilite alcune coordinate emotive e geografiche della serie. Innanzitutto la location, ovvero gli splendidi paesaggi del Montana, nonché le atmosfere tipicamente western ma trapiantate in un contesto moderno. Per intenderci, avremo i cowboy armati di smartphone, oltre che di lazo e pistola, infatti siamo dalle parti del cosiddetto genere neo-western. Inoltre, l’attacco bucolico, quasi da Uomo che sussurrava ai cavalli, cela invece un contesto ben più drammatico, con l’incidente d’auto e il cavallo in fin di vita. Questo la dice già lunga sui meccanismi narrativi della serie che, all’interno di un contesto naturalistico paradisiaco, inserisce invece elementi a dir poco disturbanti.
Poi c’è lui, la star Kevin Costner che, a distanza di diciassette anni da Open Range (2003) – ultima sua incursione nel genere, anche come regista –, torna alle atmosfere che gli sono più congeniali e cioè quelle del western, alle quali apporta tutto il suo naturale carisma in un ruolo su misura per lui. In questo caso, l’attore di Balla coi lupi (1990) e Wyatt Earp (1994) interpreta John Dutton, patriarca di una famiglia che da varie generazioni possiede lo storico ranch Yellowstone che comprende uno smisurato appezzamento di terreno in cui pascolano le mandrie marchiate con una bella Y sul dorso. Non sono solo le vacche, però, a essere marchiate ma perfino i cowboy che vi lavorano. Sì, perché John pretende assoluta fedeltà dai suoi rancheros e così, con la promessa di lavoro, vitto e alloggio, li fa incidere, proprio come delle bestie. Chi possiede il marchio è comunque un intoccabile e detiene automatico rispetto nell’ambito della città di Bozeman che si trova nei dintorni. Dutton, inoltre, svolge funzione di commissario delle associazioni di allevatori della regione e coltiva potenti agganci politici che gli permettono di fare il bello e il cattivo tempo.
Dunque, Costner – in questo caso anche produttore esecutivo – perde quei tratti di rettitudine e caratura morale che avevano caratterizzato, sempre nello stesso genere, il maggiore Dumbar di Balla coi lupi oppure il cowboy Charley Waite di Open Range e acquista invece in termini di sfumature e ambiguità. Da un lato, è un vero e proprio feudatario che controlla i propri possedimenti con pugno di ferro, un proprietario terriero che non esita a ricorrere a mezzi illeciti, anche l’omicidio, per difendere i propri interessi e quelli della sua famiglia. Dall’altro, è un uomo leale con chi gli è fedele e pretende la stessa fedeltà da chi gli è vicino, soprattutto dai suoi figli.
È proprio la famiglia quella che procura i maggiori grattacapi a John Dutton, vedovo ormai dal 1997: il figlio prediletto, Kayce – interpretato da Luke Grimes –, che ha ereditato la forza caratteriale del padre ma che, per la sua natura ribelle, si ficca costantemente nei guai, si è allontanato dalla famiglia per motivi che scopriremo in seguito e vive nella vicina riserva indiana con la moglie nativa americana e un bimbo piccolo. Jamie, interpretato da Wes Bentley, è un avvocato rampante che cerca di farsi strada nel mondo della politica per poter continuare a curare gli interessi della famiglia, ma non è abbastanza ruvido, almeno per i canoni di John. Poi c’è Lee che è rimasto sempre al Ranch a lavorare accanto al padre ma non possiede un grammo della scaltrezza e risolutezza paterne. Infine, Beth – interpretata da una seducente Kelly Reilly – che, a causa di un affetto materno sempre negato, sfoga i suoi problemi emotivi con un comportamento sessuale a dir poco disinibito e con un’aggressività, negli affari e nelle relazioni sociali, che le ha fatto guadagnare il soprannome di squalo. Degna figlia di papà, a lei verrà affidato il compito di curare gli interessi familiari nel campo affaristico. Ovviamente la sua vena distruttiva, nonché autodistruttiva, nasconde una fragilità psicologica pronta a esplodere.
Yellowstone è prima di tutto una grande saga familiare che, con le sue rivalità, conflitti irrisolti, invidie tra consanguinei e lotte per il potere, risuona di forti echi scespiriani. Tali atmosfere si riverberano anche negli intrighi politici e nel clima di corruzione che vige attorno alla città di Bozeman che fa da sfondo alla lotta politica del giovane e rampante Jamie Dutton e soprattutto ai dubbi affari messi in piedi dal losco imprenditore edile Dan Jenkins – interpretato dal bravissimo caratterista Danny Huston – che vorrebbe fregarsi la terra dei Dutton. Infine abbiamo Thomas Rainwater – interpretato da Gil Birmingham –, un nativo americano che ha fatto carriera in politica e che vorrebbe riscattare i torti subiti dal suo popolo utilizzando le stesse armi usate dai bianchi per depredarlo. Non ci sono buoni e cattivi in Yellowstone, ma solo notevoli ventagli di umanità. La carne al fuoco, come vediamo, è tanta.
I temi tipici del genere western, in particolare quello del possesso e della difesa della terra, vengono qui declinati con un taglio moderno ma sempre con un occhio a quelli che erano i topos della frontiera americana. Per esempio, nonostante i cowboy guidino moderni Land Rover e parlino al cellulare, le dinamiche sociali sono sempre quelle, con le scazzottate e il saper domare un cavallo selvaggio come riti di iniziazione imprescindibili.
È nella contrapposizione tra l’ipocrita e imbelle ambiente cittadino di Bozeman e quello rurale, ma comunque spietato, dei cowboy del ranch Dutton, che si consumano efficacemente le principali dinamiche tematiche e visive della serie. Gli alberghi di lusso in cui si muovono Jenkins nonché i politici e avvocati che ruotano attorno alle vicende dei Dutton fungono da contrappunto agli splendidi paesaggi, fotografati in modo eccelso da Ben Richardson, che fanno invece da cornice agli eventi del ranch e della riserva indiana. Cardine della serie è dunque tale conflitto tra il molle mondo cittadino e la ruvidezza di quello dei cowboy, portatore di una mascolinità che oggi, in tempi di politically correct, si definirebbe tossica ma che, nel contesto di una terra selvaggia e pericolosa come il Montana, acquista invece un senso. Sebbene le regole di vita dei cowboy del ranch abbiano qualcosa di tribale, la lealtà e il senso di cameratismo che vige tra loro sono assoluti.
Tra i fidati alla corte di Dutton c’è Rip – interpretato da Cole Hauser –, unico personaggio in grado di tener testa alle intemperanze di Beth, un ex trovatello cresciuto appunto dal proprietario dello Yellowstone come un figlio e che infatti ricambia con assoluta devozione. Tale rapporto ricorda in parte quello che c’era tra il giovane ranchero Steve Leech, interpretato da Charlton Heston, e l’anziano maggiore Terrill nel classico di William Wyler Il grande paese (1958), film nel quale, manco a dirlo, il possesso della terra era il seme della discordia tra due famiglie storicamente rivali. Per adempiere ai sentimenti di lealtà e fedeltà alla persona che lo ha cresciuto come un figlio, dandogli opportunità di lavoro e di vita, il cowboy Heston/Leech non esitava a eseguire qualsiasi tipo di compito il maggiore gli affidasse, anche al di fuori della legge. Così farà anche il nostro Rip nei confronti del padre putativo John Dutton. Infine, la scazzottata del sesto episodio tra Kacey Dutton e il fratello acquisito Rip, rito di passaggio inevitabile nel genere, ricorda in qualche maniera quella storica tra Heston e Gregory Peck, personaggio che in quel caso rappresentava il nuovo arrivato, sfidato dal ranchero esperto, nella pellicola di Wyler.
Artefice di Yellowstone è l’attore, sceneggiatore e regista Taylor Sheridan, già autore degli script di Sicario (2015), Hell or high water (2016) e I segreti di Wind River (2017) – di cui è stato anche regista –, vera e propria trilogia della nuova frontiera americana, affrontata sotto molteplici aspetti. In questa prima stagione, Sheridan ha scritto e diretto tutti gli episodi e infatti si avverte la sua mano sia nell’impatto emotivo e viscerale con cui vengono caratterizzati i suoi personaggi sia nella potenza visiva con cui è stato reso tutto questo, a partire dalle numerose riprese aeree mozzafiato dei pascoli del Montana.
Vera chicca – o Easter Egg come si dice oggi – per gli appassionati del genere è l’attacco del sesto episodio che comincia con le struggenti note del tema musicale de Gli spietati, ultimo capolavoro western eastwoodiano, premiato con 4 Oscar nel 1993, sulla scena in cui Kacey barda il cavallo e parte malinconicamente al galoppo.
In America, dove la serie ha avuto un enorme successo, è stata già realizzata una seconda stagione, in attesa di essere doppiata quando l’emergenza coronavirus lo permetterà. Nel frattempo, sono state confermate la terza e quarta stagione, già in via di realizzazione. Va detto che, soprattutto all’inizio, la serie si prende i suoi tempi ed entra a regime solo dopo un paio di episodi. Sheridan ci fa entrare pian piano nelle dinamiche sociali e familiari del ranch Dutton e dintorni. Se da un lato la narrazione ha dunque il respiro classico ed epico dei western di una volta, dall’altro però, i colpi di scena, gli approfondimenti psicologici, gli archi narrativi complessi, i flashback rivelatori, tipici delle serie moderne, non mancano. Anzi, siamo certi che, con il suo sapiente mix di intrighi politici mescolati a saghe familiari, nonché di eventi traumatici che a volte sono dei veri e propri pugni nello stomaco, Yellowstone potrebbe appassionare tutti quegli spettatori rimasti orfani dell’altrettanto scespiriano Il Trono di Spade.
Se a questo sommiamo il valore aggiunto della presenza di una star del calibro di Kevin Costner, con tutto l’immaginario cinematografico, congruo al genere, che porta automaticamente con sé, nonché il suo indiscutibile carisma, Yellowstone rappresenta un ottimo intrattenimento.