La World Press Photo Foundation, associazione no profit con sede ad Amsterdam fondata nel 1955, è l’organizzazione impegnata nella tutela della libertà d’informazione, d’inchiesta ed espressione, promuovendo in tutto il mondo il fotogiornalismo di qualità. La fondazione vanta diverse attività, ma in particolar modo il concorso di fotoreportage più prestigioso in assoluto. Ogni anno vi partecipano seimila fotoreporter provenienti da ogni angolo del pianeta e dalle maggiori testate editoriali tra cui il New York Times, El País, Le Monde e tanti altri. Questo concorso rappresenta e concentra quindi i più alti standard della fotografia d’attualità nella foto vincitrice dell’anno, ovvero la World Press Photo of The Year, selezionata tra otto categorie diverse: natura e ambiente, arti e spettacolo, vita quotidiana, ritrattistica, mutamenti climatici e sociali, azioni sportive e notizie generali. Le immagini che hanno vinto questo premio sono diventate iconiche, altre invece hanno influenzato il fotogiornalismo tanto da cambiarne lo stile e dettarne i caratteri.
La mostra, nella sua edizione del 2018, sarà esposta al PAN, Palazzo delle Arti di Napoli, dal 24 novembre al 16 dicembre e tra i tanti ospiti sarà presente, domenica 9, il fotografo Vincenzo Noletto, fondatore di Humans of Naples e instagramer dell’anno che ho avuto il piacere di intervistare.
Dopo essere stato eletto instagramer dell’anno adesso un altro passo, incredibilmente bello e importante, ma cos’è per te il World Press Photo?
Il World Press Photo è un po’ come gli eroi per i bambini. Quando facevo fotogiornalismo, sognavo di poter essere tra gli autori di quelle foto. Mi è sempre piaciuto raccontare, per questo ho iniziato a fotografare, tuttavia non ho mai scattato istantanee che abbiano cambiato la vita o il percorso della storia di un popolo, di una persona. Mi piacerebbe ancora poter far parte anche solo della schiera degli autori, non per forza di essere tra i vincitori perché per me quello è il concorso di fotografia più importante, ha un posto speciale nel mio cuore.
La tua public lecture sarà domenica 9 dicembre. Avresti mai immaginato di parteciparvi in questo modo?
Non avevo mai pensato di aver a che fare con il World Press Photo perché nell’ambito del mio lavoro non mi sono mai spinto oltre la cronaca o la fotografia sportiva. Non credevo, quindi, che fosse possibile. E ancora di più fa strano perché sono lì a parlare di fotografia proprio io che ho iniziato pochissimo tempo fa, l’intervento infatti si baserà anche su questo.
Guardando dal passato a oggi, cos’è cambiato, secondo te, nel fotogiornalismo?
Mi viene da dire che è cambiato tutto e non è cambiato niente, i conflitti che hanno distrutto il mondo ci sono ancora, si sono spostati o persistono negli stessi posti. Per quello che riguarda il fotogiornalismo di guerra, dunque, siamo purtroppo sullo stesso “campo di battaglia”. In generale, invece, è cambiato tanto perché la velocità di fruizione è totalmente diversa, perché prima ci voleva molto più tempo affinché una notizia potesse arrivare, ma è mutato anche il modo di farlo perché adesso è più difficile farsi credere per via delle fake news, per via di persone che hanno più interesse a vendere i giornali piuttosto che a vendere verità. Per questo motivo, oggi non si è visti come fotogiornalisti nella migliore delle vesti, piuttosto si viene presi un po’ per cazzari, bisognerebbe distruggere il preconcetto o il pregiudizio del giornalista giornalaio. Si tratta di qualcosa che si sente eccome.
Chi ha influenzato particolarmente il tuo modo di fare foto?
Dal punto di vista fotografico sono onnivoro, mi nutro di fotografia e continuo a farlo, credo sia anche un po’ il risultato di quanto ho visto fino a oggi, degli autori, della mia formazione, la mia cultura, quello che ho potuto vedere e vivere. Credo che non ci sia un autore in particolare ad avermi influenzato, diciamo che non credo di essere cambiato per via di un solo fotografo, il tutto viene dalla formazione, dal vissuto, è l’unione di quello che ho visto fare e quello che ho fatto. Osservando determinate caratteristiche/sfumature negli altri fotografi, mi è venuto quasi naturale potermi prendere il rischio di dire una cosa a modo mio e, quindi, di fotografarla alla mia maniera, lavorando come un professionista e non solo come uno che fa le cose perché così le fanno gli altri.