Se la parità di genere sembra un concetto astratto e indicativo, è bene sapere che essa è molto più tangibile di quanto si pensi, ed è sicuramente misurabile. E se la disparità sembra oggi non così tanto problematica né troppo lontana dalla soluzione, è bene sapere invece che ci vorranno 132 anni per azzerarla. Non c’è alcuna speranza di vederla dunque – non che avessimo qualche dubbio –, né per noi né per i nostri figli. Forse i nostri nipoti potranno osservare il fenomeno, da anziani, e sorridere perché avranno finalmente lasciato un mondo migliore ai loro, di nipoti. È questo il futuro che aspetta l’umanità, secondo l’ultimo report riguardo il World Gender Gap stilato dal World Economic Forum: 132 anni in cui la disparità continuerà a mietere molte vittime, anche in Italia, Paese tutt’altro che moderno.
I dati inequivocabilmente misurati dal report del World Economic Forum non sono in alcun modo rassicuranti. Per misurare il gender gap – globale, per macro aree e per singoli Stati – la disparità di genere è stata divisa in quattro fattori: salute e sopravvivenza, rendimento scolastico, partecipazione economica e opportunità, empowerment politico. E sono proprio questi ultimi due gli aspetti più problematici, nel mondo come nel nostro Paese.
Se l’Italia, facendo una media dei quattro fattori, occupa la 63esima posizione a livello globale, osservando solo partecipazione economica e opportunità crolla in classifica fino alla posizione 114. È questo punto, spesso invisibile, ancora più spesso intenzionalmente ignorato, che spiega perché il Bel Paese è ancora tanto lontano dal raggiungere la parità. I dati sull’occupazione femminile in Italia non sono affatto rassicuranti, e peggiorano sensibilmente quando si osserva l’occupazione di donne con prole. Nello Stivale, lavora soltanto una donna con figli su due, e la percentuale scende ancora di più per coloro che hanno bambini sotto i 6 anni. Se un dato del genere può apparire normale, se ci si dice che con i figli di cui prendersi cura è più difficile lavorare, basta guardare i dati dell’occupazione maschile per rendersi conto di una certa disparità.
Se a non trovare lavoro con bambini piccoli a casa fossero in egual misura uomini e donne, potremmo dedurre che nel nostro Paese mancano le politiche sociali, ma non staremmo a parlare di disparità di genere. Invece, osservando che l’occupazione maschile non subisce alcun contraccolpo dalla nascita di un figlio, e che anzi matrimoni e gravidanze sono motivi di promozione e non di penalizzazione, si arriva facilmente a intuire che il problema non è tanto la considerazione della capacità delle donne, quanto l’incredibile ostacolo che il lavoro di cura rappresenta. Le donne portano avanti il lavoro domestico, riproduttivo e di cura tutto da sole, non condividendone mai (non a sufficienza, almeno) il carico con la controparte maschile. E, dunque, sono inevitabilmente penalizzate.
Se ci diciamo che il lavoro riproduttivo è inequivocabilmente femminile e che non c’è proprio nulla che si possa fare per risolvere il problema, ignorando abilmente la questione relativa ai congedi parentali che, se fossero uguali tra i due genitori, eliminerebbero buona parte del problema, sul lavoro domestico e di cura l’unica giustificazione a sopravvivere è quella dell’inclinazione naturale. Gli uomini non hanno l’inclinazione naturale a pulire il bagno e stendere la biancheria, mentre le donne hanno un’incredibile – e infatti non ci crediamo – inclinazione a prendersi cura degli altri. Ovviamente, non ce ne sono tracce nel genoma femminile, eppure il lavoro di cura è sempre automaticamente assegnato alle donne. Che si tratti dei figli, mai divisi con il genitore dell’altro sesso, che si tratti dei genitori anziani, mai divisi con i fratelli, che si tratti addirittura dei suoceri, perché sia mai che a prendersi cura di qualcun altro sia un uomo.
Il ragionamento dietro all’assegnazione quasi automatica del lavoro di cura è lo stesso che impedisce alle donne non solo di disfarsi di un carico che, se diviso a metà, renderebbe la vita più facile e meno faticosa, ma soprattutto impedisce loro di raggiungere l’indipendenza economica. Ed è a causa di quella che spesso non ci si può liberare di abusi e violenze, ma anche semplicemente di un’assenza di libertà, poiché non si possiede la facoltà economica per decidere per se stesse. La disparità di genere permea ogni aspetto della vita delle persone che la vivono e, inevitabilmente, ogni fattore è incatenato agli altri in una rete nella quale non possono che esistere tutti gli aspetti finché ne esiste ancora uno. E, nel mondo capitalista, l’aspetto economico non può che farla da padrone e rendere l’assenza di indipendenza un problema anche su tutti gli altri fronti.
Ma come risolvere una situazione basata su convenzioni antiche millenni, su un apparato culturale incapace di evolvere da solo e su costumi radicati che sono duri a morire? Ovviamente con la politica, con un intervento strutturale sull’economia come sull’apparato culturale. Peccato che, anche in questo caso, tutto sia incatenato e che anche l’empowerment politico registrato dal World Gender Gap report ci ricordi che non sarà la politica a salvare la situazione. Dopotutto, non ci si può aspettare che una categoria riceva ciò che le serve, che ne siano riconosciute criticità e ingiustizie, se essa non è adeguatamente rappresentata da chi prende le decisioni.
In merito a questo aspetto, l’Italia occupa una posizione apparentemente dignitosa (41) se non fosse che è l’ultimo dei Paesi occidentali ad apparire in classifica. E se non fosse anche che l’empowerment politico non può dipendere esclusivamente dalla percentuale di donne in Parlamento, ma in tutte le posizioni di potere, anche quelle economiche, che sappiamo influenzare incredibilmente le politiche. Non è la rappresentanza numerica, non è la quantità di donne che accede alle camere del potere a fare la differenza, se riescono ad avere accesso solo quelle che si adeguano perfettamente alle logiche patriarcali.
Come si è detto spesso su questo giornale, non basta votare una donna per essere femministi, non basta parlare di parità se non la si pratica, se non si trovano – o almeno cercano – soluzioni concrete. E, dunque, le stime del World Gender Gap report non ci sorprendono quando affermano che mancano 132 anni alla parità, non ci colgono alla sprovvista, non ci abbattono neanche, perché mai avremmo sperato di poterla finalmente guardare con i nostri occhi, viverla sulla nostra pelle. Eppure è fondamentale che ognuno continui a lavorare per ottenerla, come se a raggiungerla fossimo noi e non i nostri pronipoti, per assicurarci che almeno qualcuno, un giorno tra 132 anni, potrà goderne.