Un tempo si chiamavano slogan, oggi più comunemente hashtag. Erano frasi brevi, pungenti, lapidarie, poche parole come un grido di protesta, la rivendicazione di un diritto, uno stile di vita, la difesa di un modo di essere. Ci si faceva sentire. Un tempo si chiamavano manifestazioni, oggi discussioni su Facebook o, ancora più aggressivi, scambi di tweet. Nulla di troppo serio, insomma.
A tal proposito, a chi bazzica sui social, per lavoro o semplicemente per svago, di certo non saranno sfuggiti alcuni degli hashtag più digitati – ma anche discutibili – degli ultimi tempi, come #RiprendiamociGliSpazi, #LegSpreading e #WomanSpreading, diventati rapidamente il motto di numerose donne e pagine – purtroppo, troppo spesso, in modo inappropriato – a strenua tutela del genere femminile. Ma capiamo cosa significano.
Nell’agosto del 2015, l’Oxford English Dictionary ha riconosciuto e aggiunto tra i suoi vocaboli il termine manspreading (da man, uomo e spreading, allargare) per riferirsi a quel comportamento tipicamente maschile che vede la persona seduta a gambe divaricate, soprattutto sui mezzi pubblici, occupando quindi uno spazio maggiore del necessario. Una pratica diffusa che, stando a sondaggi e testimonianze varie, importunerebbe non poco il vicino di posto, costretto a un indesiderato contatto fisico. In particolare, a farsi sentire sono state le proteste di molteplici associazioni femministe le quali, soprattutto a Madrid, capitanate dal gruppo Mujeres en lucha y madres estresadas, hanno dato il via a una vera e propria campagna di sensibilizzazione, raccogliendo oltre dodicimila firme che hanno portato all’affissione di cartelli indicanti la postura corretta da tenere sugli autobus. Così come accaduto, poi, nelle metropolitane di New York, del Regno Unito, del Giappone e della Turchia.
In realtà, quello che poteva essere un semplice suggerimento di buon senso si è trasformato prontamente in una rivendicazione di genere per combattere l’invasione machista dello spazio. Per le attiviste, infatti, tale attitudine rispecchierebbe quella mentalità maschilista e gerarchica alla quale ci hanno, sin da sempre, abituati, e che, quindi, legittimerebbe una demarcazione della territorialità negata alle donne, cresciute secondo il principio delle gambe chiuse quando ci si siede perché è così che si comporta una signorina. In tal senso, si è espressa anche l’Università di Berkeley, la quale ha affermato che il manspreading manifesterebbe l’atteggiamento di dominanza insito nel gene maschile. Forti anche di questo studio, al grido di Non lasciare che gli uomini invadano il tuo spazio: né in metro, né nella vita, in molte hanno sentito la necessità di alzare la propria voce per denunciare quell’occupazione indebita non solo fisica ma anche psicologica che, il più delle volte, si rispecchia nella realtà quotidiana, e, soprattutto, per denunciare quel contatto che, a loro dire, equivarrebbe a una molestia ben ponderata. Ma è davvero tale?
Sia chiaro, chi scrive è donna e non vuole assolutamente legittimare alcuna forma di prevaricazione di un sesso piuttosto che di un altro. Che le differenze di genere, in ogni ambito e in ogni gradino della nostra società, ci siano è palese e vanno denunziate e combattute ogni giorno ininterrottamente. La stessa penna lo ha fatto qui, su Mar dei Sargassi, a più riprese. Tuttavia, la rivendicazione di una parità – quanto mai necessaria e imprescindibile – non può annebbiare la mente e sfociare in polemiche talvolta sterili e, ahinoi, rasenti il ridicolo. Pensare che il casuale toccarsi di due corpi in un mezzo pubblico possa corrispondere a una molestia sessuale significa non riconoscere la gravità delle violenze e delle molestie vere. Non tutti quelli che ci incontrano e sfiorano in un autobus vogliono per forza trarre beneficio dalla cosa. Magari, il nostro contatto può persino infastidirli. Richiedere – o pretendere – che una persona si sieda in modo composto e non come se fosse sul proprio divano di casa non è una questione di genere, bensì di educazione, di senso civico, di rispetto degli altri e dei loro spazi e, perché no, di se stessi. Ragionando in questi termini, dunque, non appare così errata la reazione di alcuni uomini che, in loro difesa, hanno risposto alle foto che li ritraevano stravaccati con istantanee di donne che poggiavano borse o buste delle spesa per avere più spazio a propria disposizione, coniando il termine she-bagging. Istantanee per le quali le donzelle avrebbero ribattuto che c’è differenza perché gli oggetti potevano e possono essere rimossi in qualsiasi momento. Bene, le sorprenderà sapere che anche le gambe, in casi estremi su richiesta, possono essere accavallate o tenute il più vicino possibile l’una all’altra.
Come se non bastasse, la questione si è poi inevitabilmente spostata sul piano della conformazione fisica degli uni e delle altre. Il CAFE, l’associazione canadese per l’uguaglianza, sostenuto da tanti, ha infatti dichiarato che per gli uomini una postura diversa comporterebbe un certo dolore fisico. Prontamente le donne hanno ribattuto: Anche noi abbiamo una protuberanza nel corpo, la chiamiamo tette. Ma non per questo andiamo in giro tutto il giorno con le braccia aperte. Pure in questo caso, le stupirà sapere che le braccia, qualunque sia la loro posizione, non poggiano sul seno, anche quando formoso.
Come si evince, dunque, quella contro il manspreading è diventata una battaglia convinta, dal riverbero mondiale, che ha coinvolto tutti: dalla stampa alla politica, dal mondo del cinema agli utenti dei social, in moltissimi hanno sentito di dover dire la propria – raramente con imparzialità – soprattutto per difendere la categoria di appartenenza, sigillata da etichette che andrebbero ampiamente superate in una società che vuole puntare all’uguaglianza tra i generi. Sebbene il maschilismo non abbia mai avuto e continui a non avere ragion d’essere, infatti, c’è da dire, purtroppo, che il femminismo – sacrosanto movimento di rivendicazione grazie al quale la sottoscritta è libera di esprimersi – in talune campagne che ha cercato e cerca di promuovere e di portare avanti, in particolar modo negli ultimi anni, ha assunto posizioni estremiste che di parità hanno ben poco, così come di credibilità. Il #WomanSpreading, corredato dal #RiprendiamociGliSpazi ne è un chiaro esempio.
Usare hashtag come i sopracitati per accompagnare foto di sé in pose che imitano quelle contestate agli uomini, infatti, non è sinonimo di libertà o di pretesa di un diritto che non viene rispettato. Se il problema di fondo è la molestia, allora essa va evitata a tutti i costi, non arrecata a qualcun altro. Se, invece, è il poco spazio a disposizione che si reclama, per affermarsi non lo si toglie al proprio vicino. Insomma, comunque la si voglia vedere, forse bisognerebbe ammettere che, lo ribadiamo, una seduta composta – sinonimo di educazione – non può diventare una denuncia di stampo femminista. Che il mondo sia fallocrate è innegabile, così come è vero che oltre le gambe c’è di più e che una donna è costantemente costretta a dimostrarlo. Vien da sé, dunque, che le battaglie da sostenere e portare avanti siano ben più serie e importanti, nonché necessarie. Vien da sé che pretendere rispetto sul lavoro come nella vita, richiedere una paga uguale a quella del proprio collega, sentirsi libere di vestirsi e di amare senza essere etichettate come delle poco di buono, ottenere un ruolo di prestigio perché intellettualmente dotate e non perché belle o “disponibili”, emanciparsi per davvero, implichino lotte ben più dure, concrete, serrate. Gli spazi da riprendersi sono nella società, non in metro o sull’autobus. Sono tra le mura di casa, quando il marito pensa di portare lui – e solo lui – i pantaloni. Sono tra le donne che troppo raramente camminano insieme. Sono tra lo specchio e la propria immagine riflessa.
Il famoso tanto auspicato mondo migliore, più giusto, corretto, egualitario, senza differenze o discriminazioni, forse, per concretizzarsi dovrebbe spogliarsi dei titoli che si attribuisce. Quel mondo non può e non deve essere maschilista, non può e non deve essere femminista. Quel mondo è di tutti. #Prendiamocelo, non è mai stato nostro.