Widad sale sul palco, ha lo sguardo lucido e sorride timidamente al suo traduttore italo-siriano. Siamo a inQuiete, il Festival delle scrittrici a Roma nel quartiere Pigneto. Quest’anno, ancor prima delle notizie sul confine turco-sirano, il festival ha organizzato uno spazio dedicato alla questione curda ospitando Widad Nabi e la presentazione di Dentro il cuore di Kobane di Vichi de Marchi, un inno alla resistenza di un popolo e all’eroico non-eroe del mondo moderno: l’esule di guerra.
L’intera platea applaude in omaggio dell’incredibile resilienza della gente siriana, in rivolta dal marzo 2011 contro un regime autoritario. Da quella mossa politica, passata alla cronaca solo come l’avvio di un lungo decennio di sangue, è venuto fuori un movimento artistico senza precedenti che si esprime a livello poetico, cinematografico e teatrale, influenzando anche il mondo europeo dove molti creativi mediorientali sono costretti a rifugiarsi. Widad, in particolare, è curda, scrive in arabo e si identifica come siriana. Nata a Kobane e formatasi come economista, ha studiato ad Aleppo per poi emigrare a Berlino, dove vive dal 2015. La sua è una storia di fuga e una geografia della sopraffazione, lo schiacciamento di un universo femminile inquieto, di un fermento interiore che non può esprimersi se non in un Paese lontano, troppo lontano.
L’evento è affollatissimo, Nabi ringrazia per la partecipazione e la ricorda come una bellissima giornata. Chiara Bersani legge le sue poesie in italiano, Widad legge in arabo i testi tratti da Mezzogiorno di amore e mezzogiorno di guerra (2013) e da La morte come fosse un rottame (2016). Fa ascoltare al pubblico il suono che ha il dolore quando lo si legge in lingua, cosa si prova a non capire nulla di parole lette in un idioma così diverso e contemporaneamente capire tutto.
Domina il ricordo di una casa. La memoria è una voce lontana, lo sguardo di un cuore che si trova a Berlino ma che è altrove. Widad è la voce della Siria, in particolare del Kurdistan siriano, la voce di un’umanità raccontata solo per la tragedia della guerra. Come lei stessa dice, il suo è un omaggio all’umanità dimenticata e appiattita, al vissuto di persone che esistono indipendentemente dalla guerra e che non possono essere indicate con banalità solo connesse alla tragedia siriana. Widad scrive per questo: è una donna emergente nel panorama della diaspora. Prima della guerra era lontana dalla scrittura. Ha iniziato la propria produzione solo dopo il 2011: la sua è una poesia che è nata nel dolore, nella piazze di Aleppo e sgorga dalla vita e dalla propria storia. A Berlino sta intessendo importanti legami letterari ed editoriali, divenendo punto di riferimento per la produzione degli artisti rimasti in Siria. Guarda al patrimonio arabo e attinge al suo modernismo, impossessandosi e adeguando il lascito alla sua nuova generazione.
La sua è una poesia attraversata dal tema della memoria e dell’identità: la memoria della perdita e anche dell’amore, che per lei è la forza propulsiva della poesia femminile. «Ho visto donne piantare rose nei punti sventrati dalle bombe cadute sui tetti delle loro case e ho pensato che quelle donne hanno sconfitto con il loro amore la distruzione e le macerie che circondano le loro vite»: così ha dichiarato Widad in un’intervista tedesca, parlando di una generazione di donne sole a cui dedica una delle sue liriche più belle.
Alle donne sole.
Le donne sole
che hanno passato la vita a correre
quelle che non hanno mai conosciuto
il privilegio di accomodarsi in poltrona
perché sempre costrette a correre dietro qualcosa
cose piccole, per altri
facili come l’acqua.
Le donne che hanno a lungo rincorso
lo spettro avvizzito della maternità in pieno ciclo mestruale.
Hanno corso dietro i bouquet di fiori ai matrimoni delle amiche
hanno rincorso uomini che non hanno mai capito
perché una donna ardente di passione
rincorra una cosa semplice come l’amore.
L’amore delle donne e il loro universo intimo e quotidiano: è questo il centro nevralgico della poesia di Widad. Storia di battaglie, storie di resistenza che rivendicano la centralità dell’amore come forma di espressione cruciale. È l’amore il vero antidoto al dolore delle donne e dei curdi.
Le donne sole
che hanno corso dietro i bambini di altre,
corso dietro la casa che non gli hanno costruito,
la felicità mai condivisa,
mentre il dolore cresceva feroce nei cortili delle loro case
sull’uscio del portone della vicina che cantava una ninna nanna al figlio
sul ventre rigonfio di una donna che camminava sul marciapiede.
Le donne sole
quelle che hanno odiato i chili in eccesso del proprio corpo
come se la felicità fosse racchiusa in qualche grammo di peso in meno.
Hanno gettato gli anelli d’amore nei fiumi di città straniere
e sono rimaste ad aspettare
ad aspettare nei giardini
davanti agli asili, nelle cucine delle amiche,
con il timore di dividere la vita con un estraneo
hanno aspettato a lungo che nei loro sguardi
sbocciasse un giardino di speranza.
Widad sussurra l’inno di una femminilità negata, un desiderio di maternità represso e lacerante, la voglia di creare e soprattutto di ricostruire. La sua poesia crea la mappatura di una nuova storia in una fase così delicata del Medio Oriente. Richiama Adonis (1930) che aveva iniziato a comporre ispirandosi allo spirito del romantico rivoluzionario guardando ai drammi della storia per parlare del presente. Il passato è per loro un costrutto verbale fondato sulle narrazioni: è l’unico bene che l’esule porta con sé. È il ricordo della sua storia, una storia che qualsiasi cronaca ignora. Quello che scrive è tutto ciò che resta di un’identità sradicata. Canta, l’esule, le intemperie che è costretto ad affrontare, il dolore umano che stabilisce un ponte tra sé e il lettore, ricordando che è impossibile continuare e altrettanto impossibile non continuare.
L’urto del trauma si eleva grazie alla redenzione dell’arte e della parola poetica. La parola dei senza voce solo così potrà restare eterna: Siamo i signori della parole/ che rendono eterni i nostri lettori, scriveva così Darwīsh sugli esuli di guerra e sulla loro quotidianità distrutta, a partire dal semplice gesto di preparare il caffè su cui Widad scrive una poesia.
Sento l’amaro aroma quando bolle
simile a quella vecchia amarezza che mi morse il cuore.
Avevo lasciato il mio Paese da più di due anni
prendo il cucchiaino
e giro la posa raccolta sul fondo della caffettiera
creo un piccolo vortice
come quando scuotevo le tende nell’ultima casa lasciata.
Il movimento è sempre segno di partenza
ciò che resta immutato non va via, rimane.
[…] Solo le tende restano anche quando
sono accarezzate dal vento,
come l’ultimo ricordo tra le mani.
[…] E spingo la tazza di caffè più lontano possibile.
Ho mandato giù fin troppa amarezza
per oggi, può bastare.
La poetessa si muove nella dimensione quotidiana: gli uomini pongono centralmente l’azione e la guerra, mentre le donne riportano una dimensione organica, un mutamento del corpo e sul corpo. La voce qui richiama fortemente il domestico, è una voce che sussurra alle sue valigie e all’ennesimo aeroporto durante l’ultima fuga.
I temi di Widad Nabi sono condivisi nel lavoro di altre donne siriane nel campo audiovisivo. Randa Maddah, siriana del Golan occupato da Israele, ha presentato al festival cinematografico di Locarno il video in cui pulisce una casa in maniera meticolosa. Lava i piatti, pulisce le tende con lo stesso gesto vorticoso di cui parla Widad. Ma quella che pulisce è una casa vuota. È una casa abbandonata che rimane soltanto nel cuore e nel ricordo della donna. Anche Sara Fatthai propone Chaos, che rappresenta una conversazione fra una donna bloccata a Damasco, un’altra bloccata in esilio e la terza che se ne è appena andata. La sua è una condizione di esilio in Austria, una pace apparente sconvolta da piccole epifanie quotidiane: questa non è casa mia. La casa in cui vive in Austria ha forme umane, le si oppone con ostilità: la serratura non si apre, è una porta estranea in cui non ha la legittimità per accedere. I suoni che provengono dalla camera accanto non sa riconoscerli, parlano una lingua diversa. Sara fa il caffè e gira il cucchiaio come la poetessa, ha il suo stesso sguardo sulla distruzione e sulla guerra.
Widad si muove in piena libertà stilistica, nell’assenza di uno stile prosodico e allontanandosi dalla poesia classica. Sovverte le norme metriche, il suo verso libero attinge alla narrativa breve. Mette tutto il suo istinto creativo a disposizione della causa del proprio popolo. La sua è un’improvvisazione dettata dal dolore e dall’emergenza.
Il filosofo giapponese Daisaku Ikeda, parlando dell’attività di Nelson Mandela, dice che sono le persone comuni che soffrono a dare vita alla legislazione perché sono coloro che pur avendo subito discriminazioni e violazioni dei propri diritti umani, non permettono che altri soffrano nello stesso modo e si impegnano per abbattere, una dopo l’altra, una serie di gravi ingiustizie.
Di fatto, la sensibilità umana è comune. Widad dice infatti: «La sensazione di perdita è una sensazione si può provare a Roma, in Germania, in Siria. Quando vedo la commozione nei vostri occhi, mi rendo conto che questa lingua non è importante a fronte del modo di sentirsi umani». La poetessa torna così a Berlino e nel cuore ha l’amore per il proprio Paese fino alla distruzione finale. Ricorda la propria casa e del ricordo fa poesia: ci vuole sempre un dolore per illuminare la casa di un poeta. Servirà sempre un dolore per far parlare una voce dimenticata e per evocare una città abbandonata.
Video di Evelyn De Luca
Ottimo scritto.