Nel suo American Photographs by Walker Evans, il critico Louis Kirstein descrisse l’occhio dell’artista americano, nonché amico, anti-grafico o anti-arte fotografica. Nato nel Missouri nel 1903, Walker Evans si formò soprattutto a Parigi dove frequentò ambienti culturali dell’avanguardia europea ed entrò a contatto con il mondo della fotografia, soprattutto quella di Nadar, Atget e Man Ray che ammirava molto.
Tornato a New York, si allontanò dalla fotografia pubblicitaria per dedicarsi alla ricerca sociologica, molto più vicina alla sua natura di intellettuale impegnato anche politicamente. I consigli di Stieglitz furono per lui di grande insegnamento, soprattutto perché entrambi rappresentavano due ere, due generazioni che in parte non potevano comprendersi fino in fondo.
Il fotografo americano aveva un occhio introspettivo: ci convince che stiamo vedendo la struttura nuda del fatto presentato senza commento, quasi senza pensiero, scrisse Szarkowski nel suo Walker Evans: Photographs. E questo occhio prese forma già nel 1930, quando al Greenwich Village di New York, realizzò un reportage sulle case vittoriane di Boston insieme ad altri artisti quali Hart Crane, Ben Shahn, Lou Block, James Agee e Louis Kirstein.
Negli anni successivi, la sua passione e il suo lavoro spinsero Evans a realizzare – come li ha definiti Italo Zannier ne L’occhio della fotografia, innumerevoli, epici reportage passando per l’Alabama, il Mississippi e il West-Virginia. Le fotografie realizzate in questo periodo costituscono il suo lavoro più conosciuto e apprezzato, non soltanto perché il suo modo di documentare è immediato, ma anche per il rigore e per la forza che riescono a comunicare. Negli scatti è possibile notare un occhio estremamente sensibile e attento ai vari aspetti di una quotidianità apparentemente banale, del paesaggio umano. Le sequenze di Evans tendono a sottrarre il soggetto all’enfasi dell’immagine unica, troppo facilmente emblematica.
Con Manuel Alvarez-Bravo e con Henri Cartier-Bresson, il Evans realizzò una mostra alla Julien Levy Gallery di New York, dimostrando quanto il suo lavoro di autore maturo avrebbe influenzato un ampio settore della giovane fotografia mondiale. Soltanto nel 1938, però, riuscì a realizzare una grande mostra personale al Museum of Modern Art di New York, una prima volta non soltanto per lui, ma soprattutto per il MOMA che, come mai prima, dedicò una rassegna a un solo fotografo.
Walker Evans fu sempre fedele alla luce naturale. Nei suoi anni newyorkesi, infatti, immortalò spesso i viaggiatori della metropolitana sfruttando la luce ambiente, nascondendo la sua macchina con il cappotto sfruttando un unico punto di vista fisso. Ma sfruttare, come seppe fare lui, il fascino della luce ambiente non era cosa facile, proprio perché si tratta di un’abilità che pretende un notevole virtuosismo tecnico. In un’intervista rilasciata nel 1971 presso l’università del Michigan e riportata in Newhall, Photography: Essays & Images, Evans dichiarò: «Quando ho detto che la strada è il mio museo non intendevo affatto ciò che voi pensate […] io vado per strada per l’educazione del mio occhio e per il sostegno di cui l’occhio ha bisogno, l’occhio affamato, e il mio occhio è affamato […]».
Il fotografo, che aveva lavorato anche come scrittore presso la rivista Time, fu redattore di Fortune per la quale realizzò vari reportage con testi e immagini tra cui The Wreekers, The U.S. Depot, Before They Disappear, The Last of Railroad Steam e People and Places in Trouble, un’analisi di alcune comunità povere americane, con temi diversi, fotografie inedite e un linguaggio nuovo immediatamente comunicativo.
Questo straordinario artista, inoltre, influì, come pochi, sui giovani fotografi della generazione successiva tra cui Robert Frank, Lee Friedlander, ma anche Diane Arbus ed è oggi considerato come uno dei più grandi maestri della fotografia del nostro secolo. Spesso ha anticipato sia le scelte tattiche (l’invasione della pubblicità nel paesaggio urbano, il kitsch delle periferie…), sia un nuovo linguaggio, scabro, basta su riprese frontali, quasi schede segnaletiche, eseguite con ottiche preferibilmente di lunga focale, ma dal normale punto di vista dell’occhio; un occhio puritano. Quello di Evans, infatti, fu sempre un occhio che sceglie e che isola dal contesto, con grande rigore, soltanto gli elementi funzionali in un modo che va oltre il momento decisivo di Cartier-Bression, preferendo la sequenza affinché l’immagine possa costruirsi seguendo il divenire dei fatti.