Molta stampa la chiama la malattia di Giorgia Soleri perché, come fosse un nuovo accessorio da indossare lungo la passerella della vita, attribuirla a un personaggio famoso ne fa come un oggetto del desiderio, qualcosa di cui parlare al pari di un amore estivo. Pruriginosa quanto basta a stuzzicare l’appetito di chi si nutre dei fatti altrui. E, invece, la vulvodinia è una patologia seria, diffusa e sottovalutata, e come tale va – finalmente – trattata.
Dopo anni di silenzio, anche pubblicamente il disturbo fino a ieri tabù sta iniziando a trovare spazio nel dibattito, fuori dalla cameretta di molte donne e persino nelle Aule che decidono. I riflettori – grazie all’impegno proprio della fidanzata di Damiano dei Maneskin (perché guai a essere una donna e guai a esserlo affermando la propria individualità), tra le prime ad avere il coraggio di parlarne – si sono ormai accesi e ora tocca a noi, società civile e operatori dell’informazione, fare di tutto per non lasciarli spegnere.
A lungo sottaciuta, in ombra e mistificata, la vulvodinia è una patologia neuropatica caratterizzata dall’infiammazione dei nervi dell’area genitale esterna femminile e pelvica, causata da un’ipersensibilità delle terminazioni nervose a livello vulvare e dell’ingresso vaginale. Un disturbo che, soltanto nel nostro Paese, colpisce in media una donna su sette. Dal 12 al 15% della popolazione femminile. Forse anche di più. Seppur scoperta nel 1987, infatti, ancora oggi la sindrome non è riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale italiano e, addirittura, resta poco nota persino al personale medico che fatica a diagnosticarla. Inoltre, proprio perché non riconosciuta, le cure finiscono con l’essere totalmente a carico di chi ne soffre, costretto a spendere cifre che possono raggiungere e superare anche i seicento euro mensili.
Ogni donna, in media, impiega circa quattro anni per giungere a diagnosi. A tal proposito, sono molte le testimonianze di coloro che, a lungo, hanno faticato a trovare il giusto interlocutore, rimbalzate qua e là in cerca di qualcuno che ascoltasse le loro storie, i loro dolori e ne comprendesse la natura indirizzando la conseguente cura. A sofferenza, dunque, se n’è aggiunta soltanto dell’altra, arrivando a compromettere ogni aspetto della vita personale, sessuale e professionale di chi, rivolgendosi a un esperto – o presunto tale – non ha trovato riscontro, ma soltanto l’ennesimo muro.
Come molte altre patologie, infatti, anche la vulvodinia è stata spesso considerata più una condizione psicologica, un qualche disturbo di natura mentale che non una vera e propria malattia di carattere fisico e poi, come ovvia conseguenza, psichico. Così è cresciuta, e non poco, la difficoltà a parlarne, a palesare i sintomi per pudore o eccesso di quell’auto-giudizio a cui siamo sottoposte soltanto perché donne. Da sindrome poco diagnosticata, dunque, è diventata anche sindrome imbarazzante, da nascondere sotto il tappeto di un finto perbenismo che sempre aleggia intorno alla sfera intima femminile.
Normalizzato e sottovalutato sin dalle Sacre Scritture, così erroneamente considerato insito nella sessualità e nella vita di chi non ha il privilegio di nascere uomo, non c’è dolore, dal mestruo al parto, che non suoni inevitabile o esagerato, nel migliore dei casi tutto rinchiuso nella testa di chi sostiene di viverlo. E non c’è dolore, come spesso consigliato persino dai medici, che un buon rapporto sessuale – attenzione, solo se destinato alla procreazione – non possa alleviare.
Nasce tutto, in effetti, dall’Hystera greco, dall’utero divenuto isteria già nella presunta psichiatria ottocentesca. Con questo termine, all’epoca, si indicavano le intense nevrosi attraversate da convulsioni, attacchi epilettici, paralisi, allucinazioni che colpivano alcune donne. Stati talvolta culminanti in violenti esorcismi, legati in realtà a problemi di depressione e schizofrenia non curati perché attribuiti a un utero storto. Così, se secondo la medicina del tempo bastava un piccolo spostamento di questo organo terrificante a scatenare la furia femminile, ancora oggi la stessa espressione – utero storto – accompagna la più precoce delle diagnosi o delle etichette da attribuire a mo’ di spiegazione del disagio vissuto da una donna.
In egual modo, il dolore fisico viene trasposto, privato della sua natura sofferente e ricondotto a un più banale – attenzione: anche qui, secondo la logica che non riconosce la salute mentale e le sue mille sfaccettature al pari di quella corporea – disagio non sempre comprovabile in fase di controllo, quali lo stress e/o stati psicopatologici come l’ansia e la depressione. La donna, dunque, finisce con il sentirsi inadatta, come non legittimata a provare quelle sensazioni o, persino, con il convincersi che non siano reali, minata nella sua stessa essenza e inadeguata nella veste di compagna.
Anche i sintomi della vulvodinia, che sono tanti, non risultano tutti facilmente riscontrabili nel corso di una visita ginecologica. Parliamo di bruciore, tensione, irritazione, secchezza, sensazione di abrasione o tagli della mucosa, percezione simile a punture di spilli, gonfiore e contrattura dei muscoli. Una condizione dolorosa costante che culmina nella cronicizzazione, impedendo talvolta persino le abitudini e i gesti quotidiani più semplici, come stare seduti per un lasso di tempo appena più lungo, i rapporti sessuali e le naturali relazioni interpersonali.
La sindrome può presentarsi soprattutto in età fertile, ma può riscontrarsi anche in altri periodi della vita di una donna, dalla pubertà alla menopausa. Può essere spontanea, quando il dolore o il fastidio è avvertito anche in assenza di stimolazione, o provocata, quando i sintomi si presentano, ad esempio, a seguito di una penetrazione vaginale o un semplice contatto. Si distingue, inoltre, in generalizzata, se interessa tutta l’area vulvare, e localizzata, se il dolore o fastidio è limitato a zone specifiche. Quest’ultima è, al momento, la forma più frequente e coinvolge il vestibolo vaginale (vestibolite vulvare o vestibolodinia).
Le cause sono molteplici e non ancora del tutto note. La vulvodinia, infatti, può manifestarsi per una concomitanza di fattori o – stando ad alcuni studi – per una predisposizione genetica alle infiammazioni. Frequenti risultano, ad esempio, le infezioni vaginali, le lesioni del nervo del pudendo, l’ipercontrattilità vulvo-perineale, traumi fisici e, anche, psicologici. Possono contribuire indumenti e biancheria troppo stretti, un’attività fisica che produce microtraumi localizzati, l’uso eccessivo di detergenti o talune sostanze chimiche contenute nei medicinali per uso topico.
Per fortuna, esistono diversi rimedi per il trattamento della vulvodinia, metodi non universali e per i quali – lo sottolineiamo – è fondamentale rivolgersi a un esperto. Il dialogo è, infatti, il primo importante passo per individuare il disturbo e affrontarlo con le cure corrette, normalizzando la patologia e dandole, finalmente, il giusto valore sociale e medico. Proprio in questo senso si muove la proposta di legge presentata presso la Camera dei Deputati lo scorso 3 maggio, al momento accolta positivamente da tutte le forze politiche.
La proposta prevede il riconoscimento della vulvodinia e neuropatia del pudendo nei Livelli Essenziali di Assistenza del Sistema Sanitario Nazionale (LEA) ed è stata promossa dal Comitato Vulvodinia e Neuropatia del pudendo che comprende le cinque associazioni che in Italia si occupano delle sindromi in oggetto (AIV – Associazione Italiana Vulvodinia Onlus, Ainpu Onlus – Associazione Italiana Neuropatia del Pudendo, Casa Maternità Prima Luce – progetto Gruppo Ascolto Vulvodinia, Associazione VulvodiniapuntoinfoOnlus, Associazione Viva – Vincere Insieme la Vulvodinia). Il testo è il frutto di un lungo lavoro di attivisti, medici, pazienti e familiari impegnati affinché per queste patologie si possa giungere anche a una terapia adeguata che passi attraverso la formazione del personale medico, l’individuazione di centri di riferimento pubblici regionali per il corretto trattamento del dolore pelvico e l’esenzione dalla partecipazione alla spesa pubblica per le relative prestazioni sanitarie.
Fondamentale, per la terapia, è l’approccio multidisciplinare che deve vedere più specialisti lavorare insieme sui diversi fronti coinvolti: «Nelle donne interessate da una diagnosi di vulvodinia è fondamentale analizzare anche aspetti psicologici e relazionali all’interno del percorso diagnostico e terapeutico» sostiene Paola Zucchi, psicologa e psicoterapeuta. «Da questo punto di vista è importante tenere in considerazione la storia di vita personale della donna (anche precedente alla diagnosi), l’impatto della sintomatologia sulla qualità di vita, sul vissuto emotivo, sulla propria autostima, sulla sfera sessuale e nella relazione di coppia per definire uno spazio specifico di accoglimento, condivisione ed espressione di questi vissuti emotivi come parte integrante della terapia».
La proposta di legge prevede, infine, l’istituzione di una commissione che possa emanare le linee guida per i Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali, l’istituzione di un fondo nazionale specifico e di un registro per la raccolta dati, nonché di una giornata dedicata alla patologia. In programma vi sono, inoltre, la previsione di finanziamenti per il sostegno alla ricerca, l’accesso agevolato allo smart working, un incremento dei permessi per malattia in rapporto alla gravità della patologia e l’accesso agevolato alla didattica a distanza, con le scuole che avranno un ruolo cruciale – almeno su carta – in temi di sensibilizzazione e prevenzione primaria.
«Ho perso la mia adolescenza sentendo il mio dolore delegittimato dalle istituzioni, dalla classe medica non formata adeguatamente, dalla società tutta, persino da me stessa» ha raccontato Giorgia Soleri, oggi megafono di quelle tante voci che a lungo hanno taciuto e, ancora, continuano a farlo perché il peso dello stigma sociale, della pressione familiare, specialistica e del partner non consentono loro di esternare dolori e disagi. Ha perso, Giorgia, e con lei tutte noi, perché costrette al silenzio, alla vergogna, alla condanna del Tu, donna, partorirai con dolore con cui ci hanno educate e ridimensionate. Inadatte, criticate, svergognate. Isteriche. Mostruose. Le solite streghe.
Oggi, però, vogliamo parlare. Dobbiamo parlare. Perché abbiamo diritto al dolore e alla malattia, alla diagnosi e alla cura, all’ascolto e alla comprensione. Vogliamo affermare che il nostro non è un utero storto, è sofferenza, è disagio, è manifestazione di un corpo che è, che sente, che vuole farsi sentire. E noi con lui. «Per tanti il momento della diagnosi è una condanna, per me è stata una liberazione perché significa anche poter ricevere una terapia. Non so se guarirò mai, ma una cosa è certa: un mostro quando lo guardi in faccia fa meno paura». Un mostro quando a guardarlo in faccia siamo tutti, insieme, finisce con l’avere più paura di noi.