Volevo solo essere lasciata in pace. Queste sono le ultime parole contenute nel messaggio di una donna che voleva riavere la sua libertà. Non voglio parlare di politica e di femminismo, non voglio parlare dei dati raccolti dall’Istat, che dichiara come dall’agosto del 2022 i femminicidi in Italia siano stati 125, più di uno ogni tre giorni e in aumento rispetto ai dodici mesi precedenti.
Non voglio parlare del brutale omicidio di Giulia Tramontano e di suo figlio a Milano da parte del compagno, dell’assassinio di un’agente di polizia da parte di un collega alla periferia di Roma, che fanno salire a 47 il numero delle donne uccise dall’inizio dell’anno. Non voglio ricordare che dal primo gennaio al 28 maggio del 2023, dice il report, in Italia sono stati registrati complessivamente 129 omicidi. Non voglio ricordare che delle donne vittime 37 sono state uccise in ambito familiare o affettivo. Quelle ammazzate per mano del partner o dell’ex partner sono invece 22.
Non voglio sottolineare che, sempre secondo l’Istat, è elevata la quota di coloro che non parlano con nessuno della violenza subita e i tassi di denuncia riguardano il 12,2% delle violenza da partner e il 6% di quelle da non partner. Una carneficina italiana che non si ferma e che sgomenta quante lavorano nei centri di accoglienza antiviolenza o nelle associazioni contro la violenza di genere. Dati sconfortanti che fanno capire come tante battaglie e tante aggregazioni non siano riuscite a fermare questa tragedia immane, che può essere definita solo superficialmente privata. Una guerra che riguarda tutti e tutte in egual misura, una sciagura che sta spingendo verso una strage domestica inqualificabile.
Non si può parlare in modo superficiale di mostri, di casi limite e di sopravvenuta impossibilità di intendere e di volere. C’è in ogni assassinio una responsabilità sociale assolutamente individuabile, dovuta a un miscuglio di credenze copionali patriarcali che non sono state strappate da un immaginario collettivo che educa milioni di persone. Ma quali sono queste credenze affettive che bisogna cancellare perché armano la mano di compagni, ex mariti ed ex fidanzati? Quali sono queste convinzioni culturali da cui bisogna liberarsi?
La prima credenza ha una storia lunga di secoli che coinvolge l’educazione sentimentale degli uomini e delle donne: l’amore romantico, eterno e indistruttibile, l’amore che unisce due persone finché morte non ci separi. Questa credenza fonda le sue basi prima nella considerazione millenaria della donna come un oggetto di proprietà dell’uomo, un oggetto sicuramente considerato inferiore, governabile e prevedibile. In secondo luogo affonda le sue radici in molta letteratura, anche biblica, mitologica e ottocentesca, che rendono la donna e l’uomo inseparabili, costretti da un amore prigioniero a vivere la loro libertà individuale come una frode, un tradimento abissale che angoscia l’altro e l’altra.
Il sentimento per l’amato/amata non viene vissuto nella libertà e nel rispetto, ma sotto l’egida del possesso. Paradossale e adolescenziale l’idea che essere lasciati sia una tragedia, una vergogna, una ferita narcisistica insanabile che getta ogni anima in una disperazione massima. Bisogna invece educare a saper sostenere il dolore della frustrazione, senza limitare la libertà dell’altro nel fare la sua scelta. Ma siamo lontanissimi da questa concezione di coppia.
Separarsi significa ancora in Italia il marchio incancellabile di un fallimento privato e pubblico. Dalla concezione religiosa di essere una costola dell’uomo, la donna ha accettato di passare implicitamente all’ideale mitologico della simbiosi romantica. “Sono tua per sempre” ha avuto un margine di fascinazione maggiore dello slogan femminista “io sono mia”. Ricordiamo le radici letterarie di questo modello comportamentale di relazione sentimentale: Anna Karenina di Lev Tolstoj e il suo amore impossibile che la porta al suicidio, Madame Bovary di Gustav Flaubert che per seguire un modello di amore totalizzante, di seduzione assoluta, riesce a perdere il suo equilibrio psicologico fino a morirne; I dolori del giovane Werther di Goethe, che impazzisce fino alla morte; Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, La lupa di Verga e i drammi shakespeariani, resi immortali da una cinematografia che ha conquistato i cuori anche dei moderni.
La responsabilità di questa concezione è legata a come si trasmette tale paradigma letterario, al grado di consapevolezza e di criticità che si acquisisce studiando i testi. Il conformismo comportamentale di genere passa attraverso un’adesione acritica ai modelli copionali di attitudine sentimentale, dedicati ai ragazzi e alle ragazze. Morire per amore è lecito da secoli e far morire per amore diventa il corollario che gemma dal primo. “Ti amo da morire”, “Sono tua per sempre” e tanti altri slogan che hanno investito come un tornado la vita sentimentale di generazioni. Slogan che vengono ribaditi nelle canzoni melodiche, nelle telenovelas, nelle serie televisive, nei fumetti, nei messaggi pubblicitari.
Uomini e donne vengono educati da piccoli non all’amore verso la vita, all’amore che apre al mondo, che implica accettazione, accoglienza e libertà, ma a un amore che vincola e opprime, un amore che fa soffrire, che benda gli occhi davanti all’imprevedibilità della vita e delle relazioni. Corollario di questa credenza è logicamente il concetto di possesso e di controllo dell’altro. Se non mi devi lasciare, devo essere sicuro di cosa fai, di dove vai e di chi frequenti. La gelosia è la maschera del controllo totalizzante, della dipendenza psicologica che sfiora e ripete il legame simbiotico con la madre. “La mia donna è ancora oggi di mia proprietà” pensa l’uomo senza confessarlo nemmeno a se stesso.
Questo patrimonio di credenze affettive coinvolge sicuramente uomini e donne ma la reazione all’abbandono si diversifica nei generi, perché secoli di tale educazione emotiva hanno reso possibili solo reazioni di ripiegamento depressivo per le donne e di reattività violenta per gli uomini. Esercitare la violenza è un permesso sociale che gli uomini hanno utilizzato da tempo e che li rende permeabili a reazioni aggressive e oppressive. Sono stati educati alla guerra e all’omicidio, per difendere con ogni mezzo i concetti di patria e di giustizia, di onore e di rispetto, di religione e di nazione. Secoli e secoli di irreggimentazione militare e bellica, dove uccidere per ripristinare l’ordine accettato dal contesto sociale era possibile, anzi necessario e lecito.
L’amore romantico e la morte, eros e thanatos, sono elementi mitologici che eternizzano e legittimano la carica di violenza insita in questo paradigma relazionale. Diventa urgente una nuova educazione sentimentale, una riprogrammazione comportamentale che insegni a basare la relazione sulla libertà reciproca, sul rispetto e sulla tenerezza, dove concetti come possesso e controllo siano assolutamente banditi in ogni agenzia di socializzazione, famiglia e scuola.
Un nuovo immaginario multimediatico va promosso con correttezza e lucidità estrema. La complessità di questa rieducazione alla relazione affettiva paritaria e rispettosa passa attraverso la consapevolezza che la simbiosi amorosa è accettabile solo tra la madre e il figlio nei primi anni di vita. Poi diventa un comportamento patologico che non va rinforzato da nessuna letteratura, da nessuna religione, da nessun sapere. donna
Contributo a cura di Floriana Coppola