Torri di metallo e ingranaggi. Statue colossali in mezzo al deserto. Labirinti, castelli di ferraglia, case ricoperte di specchi e conchiglie. Città impossibili, giardini di pietra. Visionary environments li chiamano, o fantasy worlds: progetti artistici su larga scala, parchi, palazzi, giardini che si estendono per boschi, deserti, luoghi selvaggi e abbandonati.
La prima volta che ne ho visto uno, credevo di essere caduta nella tana del Bianconiglio, di essermici addentrata così tanto da finire in un mondo di miraggi, stranezze, paesaggi onirici e impossibili. Eppure era tutto reale, intarsiato nella pietra, nel legno o nel metallo da mani umane, meticolose e frementi. Mani animate dal fervore di un’ossessione, una fantasia, un sogno. Perché le storie dei creatori di questi mondi sono ancora più incredibili delle loro opere: non artisti ma persone comuni, contadini, manovali, immigrati, che di colpo hanno scelto di dedicare le loro vite a visioni profetiche.
Tra di loro c’è Joseph Ferdinand Cheval, postino francese. Per lui, tutto nacque una notte: sognò di costruire un palazzo, un castello surreale. Una visione strana, difficile da esprimere a parole. Non lo raccontò mai a nessuno, per paura di sembrare ridicolo. Quindici anni dopo, quando ormai non ci pensava più, fu il suo piede a ricordarglielo. Mentre camminava, inciampò in qualcosa. Era un sasso, di una forma così strana che se lo mise in tasca. Il giorno dopo, sempre nello stesso punto, trovò altri sassi, ancora più belli. Erano pietre arenarie, intarsiate dall’acqua in forme così strane da essere impossibili da replicare a mano. Nei suoi diari, in un francese elementare, scrisse che poiché la natura si occupa della scultura, io farò la muratura e l’architettura. Per i seguenti trentatré anni, Cheval continuò a mettersi pietroline in tasca durante i suoi giri per consegnare la posta. È così che, sasso dopo sasso, lavorando anche di notte alla luce di una lampada a olio, creò il Palais idéal.
E dal sogno di un postino di umili origini nacque un palazzo di arenaria, intarsiato a mano, sorretto da tre giganti: Cesare, Vercingetorige e Archimede. Su tutto il castello campeggiano criptiche scritte da Cheval, come Il Pantheon di un eroe dimenticato, Fuori da un sogno ho portato qui la Regina del Mondo, L’estasi è la ricompensa per lo sforzo, Il sogno di un poveraccio. Forse, la frase più iconica di tutte è 1879-1912 10,000 giorni, 93,000 ore, 33 anni di sforzo. Lasciate provare a quelli che pensano di poter fare di meglio.
Cheval sognava di essere sepolto lì, nel suo palazzo, ma scoprì presto che in Francia si poteva finire solo in un cimitero. Così, spese altri otto anni a costruire un mausoleo. La morte, quasi d’accordo con lui, lo lasciò fare e, appena ebbe terminato la sua ultima opera d’arte, se lo prese con sé.
Filippu di li tisti o Filippo il pazzo lo chiamavano: era il figlio di un pescatore di Sciacca, in Sicilia. Vissuto in totale miseria, analfabeta, Filippo Bentivegna emigrò in America. New York, però, ben presto gli mostrò il suo volto più crudo: emarginato per le sue idee anticonformiste e a causa della discriminazione razziale, venne picchiato da un rivale in amore che gli lasciò un trauma cranico. Tornato in Sicilia, con i soldi dell’America comprò una casa in campagna, dove cominciò a dipingere e a creare sculture, rifugiandosi in un mondo immaginario. Oggi lo chiamano il Castello Incantato, anche se non ci sono mura né torri: solo un’interminabile successione di teste di pietra. Filippo per cinquant’anni le scolpì nei sassi, sui rami e sui tronchi degli ulivi, sulle pareti di pietra, a migliaia, con un coltellino da tasca.
Gli abitanti di Sciacca raccontano che Filippo il pazzo le disegnava anche nel pelo tosato dei suoi cani. Le teste di re, sciamani, guerrieri o persone ordinarie riempiono l’appezzamento con le loro espressioni di rabbia, disillusione e solitudine. Re tra tutte le teste, Filippu di li tisti ha passato la sua vita a crearle e guardarle, migliaia di specchi della sua stessa espressione.
Vollis Simpson era un contadino americano, reduce della Seconda guerra mondiale. Proprio nel mezzo del terrore, della morte e della disperazione che la guerra porta con sé, Vollis Simpson costruì qualcosa di fuori luogo: una piccola whirligig, una girandola. Un aggeggio infantile, gracile, colorato, tirato fuori dai pezzi di lamiera di un aereo abbattuto dai missili. Un aereo che a sua volta aveva bombardato e creato distruzione, mutato in un giocattolo delicato. Le girandole, da allora, non abbandonarono mai più Vollis: dal 1986 ne costruì di enormi, gigantesche quanto un mulino a vento.
Più di trenta girandole colossali sorgono nel Vollis Simpson Whirligig Park, nel North Carolina. Strutture colorate, enormi, create con pezzi di auto, lavatrici e materiali di fortuna, coperte di centinaia di luci e riflettori per farle scintillare nella notte. Mentre ci cammini, vieni accompagnato dallo stridore delle girandole e dalla brezza leggera che dà loro vita. Sulle whirligigs si stagliano uomini o animali creati con fogli di metallo, che si animano quando il vento passa tra le lamiere: cani che scodinzolano, musicisti che suonano il banjo, uccelli che sbattono le ali e aeroplani che volano. È il regno del vento.
Manfred Gnädinger veniva chiamato Man, l’uomo. Era un tedesco, un uomo elegante e raffinato, emigrato in Catalogna, nel villaggio di Camelle. Man abbandonò ogni tipo di contatto con la civiltà, scegliendo di vivere come un eremita in una piccola spiaggetta della costa spagnola. Neanche l’acqua corrente o l’elettricità nella sua casetta: viveva di ciò che pescava e coltivava, in semplicità, costruendo sculture coi massi trovati a mare. Fino al novembre 2002. In quel freddo mese, la nave Prestige affondò a largo della Galizia, riversando oltre 60mila tonnellate di carburante pesante in mare. Un disastro ambientale catastrofico, che uccise migliaia e migliaia di pesci e uccelli. Man, però, fu l’unico uomo vittima dell’incidente: si lasciò morire, guardando tutte le sue opere e tutto il suo piccolo mondo distrutto dal catrame.
Sabato “Simon” Rodia era un vecchio muratore, emigrato dall’Italia negli Stati Uniti. Nel mezzo di Los Angeles, ora svettano le sue Watts Towers, una meraviglia che compete con Eiffel e Gaudí, ma opera delle mani di un solo uomo, un semplice muratore. Mani che lavoravano senza guanti a contatto col cemento, col metallo. Mani che non avevano più le loro impronte digitali. E piedi che, senza alcuna impalcatura, si arrampicavano oltre i trenta metri.
Tutto il suo vicinato lo credeva un matto, un pazzo, ma ogni mattina si svegliava curioso di guardare la nuova folle aggiunta di Rodia. Il muratore lavorava senza sosta, coprendo il metallo di cemento e cocci di vetro, porcellana, piastrelle di ceramica, bottiglie, conchiglie bianche. Rodia non solo comprendeva i principi naturali delle strutture, ma anche l’armonia con cui la natura accosta le forme e i colori. Le sue torri sono frutto di sudore e poesia, di notti passate in piedi lì su, tra le sbarre di metallo, a guardare il mondo dall’alto. Il bene è bene, il male è male – diceva in un inglese stentato – se sei per metà bene e per metà male, allora è male. Bisogna fare qualcosa che il mondo non ha mai visto.
Rodia, come diceva Richard Buckminster Fuller, dimostrava una cosa: la bellezza della libertà d’iniziativa, quella pura, totale. Una forza di volontà non condizionata da nessuna aspirazione, la ricerca della bellezza e della poesia nei posti più improbabili. La libertà è creazione, genuina, autentica, è il cercare di concepire quali sono le cose davvero importanti per l’umanità. Rodia ha usato, nella città più sfarzosa degli Stati Uniti, un modo semplice ed efficiente di costruire, senza sprechi di risorse. Ha cercato di fare il più possibile col meno possibile, di vedere la bellezza nella natura e nei suoi principi.
Ciò che accomuna tutte queste persone non è solo l’emarginazione o la meraviglia delle loro opere: è il contrapporre una visione propria, fantastica e rivoluzionaria, al mondo in cui vivevano. Vollis Simpson ha opposto alla guerra la leggerezza del vento. Manfred Gnädinger ha cercato di vivere nel rispetto più totale della natura negli anni delle petroliere e delle industrie, che non hanno tardato a ucciderlo. Filippo Bentivegna dopo il colpo in testa ha preso a colpire rocce per creare altre teste, bellezza dalla violenza. Rodia ha lavorato con le mani e i cocci nella città dei grattacieli. E Cheval ha costruito un palazzo degno di un re per nessuno, se non per se stesso: all’emblema del potere ha contrapposto il sogno di un poveraccio.