E rividi quella corrente […]; e anche il tassì si è portato via l’uomo e la donna, pensavo, mentre li vedevo arrivare per la strada; la corrente se lì è portati via, pensavo, ascoltando il rumore lontano del traffico di Londra, verso quel fiume tremendo.
Per Virginia Woolf andare in giro per le strade della sua amata Londra è il massimo dei piaceri, perché lì l’uomo si libera dal proprio sé e diventa un unico grande io. Attraverso la lettura di alcuni testi sul tema della città che scrive per conto di giornali e riviste, come in Per le strade di Londra (1927), il lettore può seguire la narratrice tra gli uomini e le donne della folla, che lungo la via diventano anime trionfanti spogliate di ogni miseria.
In questo suo cammino solitario, Virginia Woolf penetra nelle vite e nei pensieri dei passanti intorno a lei e quasi dimentica il pretesto che l’ha portata a rompere temporaneamente il guscio della sua stanza, e cioè scendere in strada con la scusa di comprare una matita. Completamente assorbita nel vedere la città con gli occhi degli altri, nel vivere l’illusione che non si è legati a una mente soltanto, Woolf ritorna poi a casa con una matita come tesoro conquistato nell’avventura urbana, provando conforto nel sentire che ciò che si possiede, compresi i vecchi pregiudizi, ritorna ad avvolgere l’io, quel qualcosa di così vario e vago, riparandolo e racchiudendolo.
Lo stesso capolavoro de La signora Dalloway è un’immensa flânerie per le strade di Londra e per i sentimenti umani, soprattutto quelli nascosti negli angoli più remoti. La protagonista del romanzo pure trova un pretesto per uscire di casa, quello di comprare i fiori per la sua festa, e praticare un’immersiva passeggiata in cui il flusso e il deflusso degli abitanti e delle loro esperienze si mescola ai cerchi di piombo che il rintocco del Big Ben produce temporaneamente e insistentemente nell’aria. Londra è anche qui palcoscenico in cui i passanti restano tutti potenzialmente presenti e assenti, tutti sotto lo sguardo altrui e ognuno ne sfugge cercando di rincorrere una giovinezza evanescente e un tempo inconcludente racchiuso in un attimo di giugno. Alla poetica del fuori scandita dalle ore di piombo e dai ruoli sociali, si alterna perciò una poetica del dentro in cui ci si può liberare da ogni forma, raccogliendosi per essere.
Immersa nella duttile modernità novecentesca, Woolf considera Londra come teatro, romanzo e poesia e può goderne senza fare altra fatica che muovere le gambe per strada. Qui, nelle vesti di flâneuse, la scrittrice registra tutte le variazioni di luci e rumori del traffico che ingloba anche il più indaffarato dei passanti. Ma i suoi occhi attenti inseguono specialmente le donne, portatrici di vite ancora tutte da documentare. Per questo, come scrive nel saggio Una stanza tutta per sé, bisogna che la donna, senza mostrare alcun rancore, faccia spazio al suo agile corpo in un mondo letterario e storico pervaso dai valori al maschile.
Puntando alla parità di genio e all’interpretazione femminile della realtà, Virginia Woolf invita le giovani generazioni di scrittrici a procurarsi una stanza indipendente e cinquecento sterline l’anno per pensare senza l’aiuto di nessuno, ad abbandonarsi ai piaceri della vita come bere buon vino, a oziare, viaggiare e scrivere essenzialmente di ciò che vogliono, purché scrivano; ma nello stesso tempo invita anche a uscire da quella stanza con la serratura alla porta (opposta al salotto comune ottocentesco nel quale le donne erano state confinate al rammendo) per scendere in strada e vagabondare e sognare.
Per Woolf non ci sono più scuse di mancanza di opportunità, di preparazione, di incoraggiamento, di tempo o di denaro: ora vi hanno mandate all’università, m’immagino, per diseducarvi -, potete benissimo dare inizio a un’altra fase della vostra lunghissima, faticosissima e oscurissima carriera. L’esortazione alle lettrici di Una stanza tutta per sé (ma prima ancora delle giovani studentesse dei college femminili di Girton e Newnham sedute ad ascoltare l’intervento della scrittrice durante una conferenza alla quale era stata chiamata a presiedere un anno prima della pubblicazione del saggio), è quella di tentare, nonostante il vento insistentemente sfavorevole, le troppe cose rimaste fuori dalla storia femminile, come esistere in città, per il solo fatto di star passeggiando, e stabilire una profonda comunione con essa, un tutt’uno fluido e inarrestabile.
Pur essendo in fondo consapevole che la passeggiata in città sia pratica diversa per l’uomo e per la donna, Virginia Woolf crede che sia possibile per una donna praticare la flânerie in assoluto anonimato, tant’è che ella scrive che quando scendiamo in strada diventiamo parte di un vasto esercito repubblicano di anonimi vagabondi e, nel momento in cui lasciamo quell’ambiente nel quale abbiamo sistemato e scelto tutti gli oggetti che ci impongono la nostra identità, nel momento in cui lasciamo la nostra casa, ci spogliamo dell’io che gli amici ci riconoscono per diventare un unico grande occhio. È in Una stanza tutta per sé che Woolf vede in strada le ragazze vagabonde, sui cui volti si riflettono il passaggio di uomini e donne e le luci tremule delle vetrine dei negozi, e le presenta al lettore: ecco le flâneuses, che hanno il desiderio di camminare inosservate, proprio come gli uomini, e di essere libere di andare ovunque.
Secondo Woolf il principio di androginia (che nella mitologia classica fa riferimento all’unione che precede la separazione dei generi, alla loro pace), prima ancora di essere trasportato in strada sottoforma di quell’unico grande occhio (che nel suo ultimo romanzare, in Le onde, diventerà addirittura mistico, eyless), deve però nascere prima nella mente dello scrittore. Lo scrittore perfetto è infatti quello che è in grado di connettersi con tutte le sfaccettature del proprio essere, riuscendo a esprimere il suo genio androgino, genio che conserva cioè in comunione con i due elementi del creato, così come faceva la mente incandescente di William Shakespeare ad esempio.
Ed è per questo che la visione dell’uomo e della donna che salgono sul tassì per poi penetrare nel traffico di Londra (il passo riportato all’inizio) trionfa nella mente della Woolf. Tale riconciliazione è infatti l’espressione esemplare dello schema dell’anima che ella ha “dilettantescamente” tracciato in un prezioso momento d’ozio, secondo il quale schema in ognuno di noi presiedono due forze, una maschile e una femminile e lo stato più comodo è quello in cui queste due forze vivono in armonia e cooperano spiritualmente. Nell’uomo, la parte femminile deve avere una sua rilevanza, così come la donna, secondo la Woolf, deve andare d’accordo con l’uomo che c’è in lei. Sottolineando quanto sia fatale, per chiunque scriva, scrivere limitandosi al proprio genere, le sue teorie saranno riprese dalle generazioni di femministe a seguire, ma soprattutto come manifesto di superamento dei generi straordinariamente moderno.
La scrittrice inglese sostiene dunque quanto sia importante (volendo prendere in prestito i termini propri della filosofia orientale) essere lo yin del proprio yang e andare in giro per il mondo, a braccetto con noi stessi, in un indissolubile equilibrio dell’essere o, ancor prima, guardarlo dalla finestra, il mondo, e togliere di tanto in tanto quel velo del reale dalle strade della sua amatissima Londra:
Era una tentazione […] guardare dalla finestra e vedere che cosa stava facendo Londra quel mattino del 26 ottobre 1928. E che cosa faceva Londra? Nessuno, a quanto pareva, leggeva “Antonio e Cleopatra”. Londra sembrava essere totalmente indifferente alle tragedie di Shakespeare. Nessuno s’interessava minimamente – e non li posso biasimare – all’avvenire del romanzo, alla morte della poesia o alla possibilità, per una donna ordinaria, di sviluppare uno stile di prosa che potesse esprimere completamente il suo pensiero. […] Ecco un garzone; ecco una donna con un cane al guinzaglio. Il fascino della strada londinese è che mai vi passano due persone uguali; ognuna sembra tutta presa da qualche suo problema privato. C’erano gli uomini d’affari, con le loro borse di cuoio; c’erano gli oziosi con un bastoncino in mano per far risuonare le inferriate. […] A un tratto, come spesso capita a Londra, mi accorsi di una calma completa, di una totale sospensione del traffico. Nessuno passava per strada. Una foglia si distaccò da un platano, all’angolo della strada, e cadde in mezzo a quella pausa e a quella sospensione. Era come un segnale che cadeva, qualcosa che indicava una forza trascurata e nascosta.