Quello di giustizia è un concetto molto delicato. Può sembrare semplice e scontato, forse non sempre facile da ottenere ma certamente semplice da riconoscere, come se fosse intuitivo comprendere dove si ferma il bene e dove inizia il male. In realtà, fin troppo spesso ciò che li separa è una linea sottile e sfocata, troppo grigia per capire esattamente da che parte stare. È questo il tipo di spaesamento che si prova quando si pensa a vicende come quella che ha per protagonista la giovane Chrystul Kizer, la diciannovenne afroamericana accusata dell’omicidio del suo stupratore.
Pochi giorni fa, Chrystul è uscita dal carcere su cauzione grazie alle donazioni ricevute per sostenere il suo delicato caso, ma è in attesa di un processo che potrebbe costarle l’ergastolo. Tra i capi d’accusa che le sono valsi già due anni di reclusione, il più discusso è l’omicidio del suo aguzzino. Sin dall’età di sedici anni, infatti, Kizer è stata vittima del traffico sessuale di esseri umani, diventando la merce di un mercato bestiale, ripetutamente stuprata e venduta. Letteralmente contrattato, il suo corpo è diventato un prodotto acquistato da altri e di cui altri hanno potuto disporre senza che il suo consenso o la sua volontà contassero. Che fosse un oggetto vivo abitato da una coscienza non era importante. Così, quando il 5 giugno 2018 la giovane, allora diciassettenne, è stata nuovamente drogata e ha sentito di non poter sopportare un’ulteriore violenza, quando ha capito che quella vita che non le apparteneva la stava uccidendo, l’istinto di sopravvivenza ha prevalso e, prima che potesse abusare di nuovo di lei, ha ammazzato l’uomo che per anni l’aveva stuprata e venduta.
L’omicidio non è mai giusto o giustificabile. Mai verrà sostenuta opinione differente in questa sede e mai si proverà a difendere i fautori di uno dei più gravi crimini che gli esseri umani sono in grado di commettere. È importante specificarlo, in vista della delicatezza dell’argomento. Ciò che si vuole contestare, però, è la rigidità della legge, che individua in un gesto estremo la legittima difesa solo in caso di imminente pericolo di vita e non prende in considerazione la possibilità che quella stessa vita sia in bilico anche quando non si è di fronte alla morte, ma a un abuso costantemente perpetrato che può svuotare un essere umano tanto quanto la fine svuota l’esistenza.
È indubbio che Chrystul Kizer non avrebbe dovuto uccidere quell’uomo, ma nessuno avrebbe dovuto costringerla a farlo, forzarla a scegliere tra la propria vita e quella di chi la stava massacrando. Che il problema sia un sistema di giustizia che non ottiene reale successo nei casi di abuso sessuale è più che evidente. Non è raro che le vittime diventino gli imputati e non riescano a ottenere giustizia e non è raro che decidano di non denunciare gli abusi subiti, perché alla gogna mediatica fin troppo spesso si aggiunge l’amarezza di una giustizia inesistente. Lo dimostra facilmente la vita di Randall Volar, il carnefice divenuto vittima, che nel febbraio 2018 era stato accusato di adescamento minorile e arrestato con il sostegno di prove fotografiche delle sue aggressioni nei confronti di numerosi minori, tra cui anche Chrystul. Una situazione apparentemente senza via d’uscita, se non fosse che il giorno successivo all’arresto era già stato rilasciato e aveva potuto riprendere le sue ignobili attività.
E se questioni del genere sembrano accadere solo oltreoceano e la giustizia nostrana ci appare più efficiente, è bene precisare che non è affatto così. In Italia, solo il 64% delle accuse di violenza sessuale finisce in condanna penale e la situazione si fa più tragica quando si tratta di violenze di gruppo, per le quali le condanne si fermano al 41%. Non sorprende allora che due terzi delle donne vittime di violenza decidano di non denunciare o, addirittura, di farsi giustizia da soli. È accaduto proprio recentemente a Rho, dove una diciassettenne ha premeditato l’aggressione ai danni di uno dei ragazzi che aveva abusato di lei durante una violenza di gruppo. Un grave atto di vendetta, in questo caso, che non ha niente a che fare con la legittima difesa, ma è facile chiedersi quanti episodi simili non avrebbero luogo se le violenze perpetrate nei confronti delle donne non fossero costantemente sottovalutate e ignorate.
Tante volte si parla di abusi e di discriminazioni di vario genere e di diversa natura, di ingiustizie di ogni tipo, senza considerare quanto differenti ingiustizie che apparentemente non hanno nulla a che fare l’una con le altre in realtà finiscano troppo spesso per intersecarsi, rendendo la lotta per la giustizia troppo complessa e incatenando le vittime in condizioni dalle quali sembra impossibile uscire. Eppure in questa storia si intersecano violenza di genere, traffico di esseri umani, mercificazione dei corpi, inefficienza della giustizia e razzismo. Sì, anche razzismo, perché sono quasi tutte nere le donne che negli Stati Uniti vengono accusate di omicidio per essersi difese, mentre è molto più semplice che una donna bianca sia riconosciuta come vittima.
Il problema sorge perché si tratta evidentemente di persone a metà, mercificate, cittadini di serie b per cui il valore della vita non è inestimabile, ma economicamente quantificabile, per cui il prezzo del corpo è relativo solo all’uso che qualcun altro può farne, e il grado di giustizia a cui possono accedere è direttamente proporzionale a razza e genere. Perché non è vero che la giustizia è uguale per tutti e appartenere a una delle categorie meno gradite significa che raramente sarà garantita.