La violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla. – Benedetto Croce
Nell’ultimo periodo, in Italia, siamo tormentati dalla narrazione morbosa e opprimente di episodi di cronaca ferocemente disarmanti. Esempi di ciò sono la morte di Sharon Verzeni, la strage di Dugnano Paderno, i femminicidi all’ordine del giorno. Giornali, telegiornali e social sembrano competere fra loro per rivelare il dettaglio più crudele di ogni delitto. Senza alcun freno, senza alcun limite, vengono rivelate dichiarazioni fortissime, parole tronfie di un miscuglio misterioso e terribile di chi commette un omicidio. Ma in questa competizione in cui l’unica cosa che conta pare sia sconvolgere, sovrapporre frammenti di crudeltà, forse ci si allontana dal centro del problema che sta annichilendo tutti.
Perché abbiamo imparato così bene il mestiere del banalizzare dal non riuscire più a portare rispetto alla complessità? Soprattutto, è evidente che si è persa l’abitudine di provare a leggere le cause deleterie quanto e più degli effetti che tramutano gli esseri da umani a disumani. Offrire questo disegno della violenza equivale a mangiare in modo compulsivo e bulimico senza dare la possibilità a chi ascolta le notizie di digerirle con la profondità dovuta.
Un grande, enorme pericolo è l’assuefazione. Ascoltare continuamente notizie di omicidi cruenti rischia di far abituare il lettore alla svalutazione della vita e, quindi, della morte. Di conseguenza, tanti titoli e didascalie ci sfiorano ma sembrano non riuscire più a toccarci. Ma se le narrazioni di disagio, morte e violenza diventano ossa per cani voraci su cui abbattersi senza pietà, l’etica del giornalismo dove si è nascosta? L’etica del vivere dov’è?
Questo tipo di racconto allontana, anziché avvicinare all’esercizio del pensiero. Non potrebbe essere più utile andare alla base dei meccanismi che innescano ogni forma di violenza, entrarci dentro in punta di piedi, provando a decifrarli, senza alcuna presunzione di avere la verità in tasca, accostandosi a certe storie con il rispetto dovuto?
Elena Ferrante ne I giorni dell’abbandono ha scritto: Quanto pesa un corpo che è stato attraversato dalla morte. La vita è leggera, non bisogna permettere a nessuno di renderla greve. Forse dovremmo interrogarci su quanta morte debba albergare nei corpi di chi uccide, oltre che in coloro che purtroppo vengono uccisi. Bisognerebbe riflettere sulle cause di una debolezza diffusa che non fa altro che generare violenza.
Secondo l’ultimo rapporto UNICEF, a livello globale 1 adolescente su 7 tra i 10 e i 19 anni convive con un disturbo mentale diagnosticato; tra questi 89 milioni sono ragazzi e 77 milioni sono ragazze. I tassi in percentuale di problemi diagnosticati sono più alti in Medio Oriente e Nord Africa, in Nord America e in Europa occidentale.
L’ansia e la depressione rappresentano il 40% dei disturbi mentali diagnosticati. In alcuni casi il disagio è tale da lasciare i giovani con la sensazione di non avere alternative: il suicidio è, nel mondo, una fra le prime cinque cause di morte fra i 15 e i 19 anni ma in Europa occidentale diventa la seconda, con 4 casi su 100.000, dopo gli incidenti stradali.
Lo psichiatra americano Kenneth Tardiff ha scritto che il problema del comportamento violento nelle malattie mentali si inquadra in una dimensione legata a molteplici aspetti di tipo culturale, ambientale, politico, sociale, solo talvolta correlato con un disturbo psichiatrico. Numerosi studi clinici a partire dagli anni Ottanta hanno indagato la relazione esistente fra i disturbi psichiatrici, la gravità della patologia, la comorbidità, la condizione di ospedalizzazione e altri fattori quali l’età, il sesso, la coesistenza di malattie organiche o il numero di ricoveri in ambiente psichiatrico. In un’ottica categoriale, le entità cliniche associate al comportamento violento comprendono le psicosi schizofreniche, la mania, alcuni disturbi di personalità, l’abuso di alcol e/o di sostanze, le lesioni cerebrali. Altri fattori collegati al comportamento aggressivo vanno ricercati nel background sociale del paziente e in una storia di precedente violenza.
Garantire un potenziamento del SSN e dei servizi a sostegno della salute mentale è una delle strade necessariamente da percorrere. Bisogna consentire agli operatori sanitari di intervenire tempestivamente, in modo preciso e mirato. È ora che la salute mentale riceva l’attenzione e la serietà dovuta nel trattare disagi delicati e a volte potenzialmente devastanti.
A rendere greve la vita è anche la banalità. Il trattare la vita e quindi la morte come un affare di poco conto, un’incombenza fastidiosa di cui non si accetta più la fatica, e nemmeno la luce. Ilaria Bernardini nel suo romanzo Il dolore non esiste ha scritto una verità che raggiunge perfettamente una soglia trascurata: chi combatte trema. Chi vive la vita come un combattimento, trema. Chi è sempre in lotta, ostinato e con i denti digrignati, trema. Chi usa la violenza, è il primo a violentarsi. La violenza può soltanto distruggere. Pertanto, chi si distrugge distrugge a sua volta e chi ha distrutto si è distrutto.
Storie di questa drammaticità non possono assolutamente essere trattate come gomme da masticare e sputate come se nulla fosse successo. Esigono rispetto. Esigono tempo per essere ascoltate. Esigono scuse. Esigono un lavoro profondo. Un lavoro necessario e improrogabile. Affinché la vita e la morte non siano accadute invano. Affinché l’ascolto possa essere giustamente rivalutato. Affinché si ritrovino le sembianze di un’umanità distrutta, stuprata, smarrita.