Cambiare il proprio sesso biologico è impossibile, i caratteri sessuali primari e le caratteristiche cromosomiche sono immutabili e non possono essere modificate da nessun ufficio di registro dello Stato civile magiaro: queste le disposizioni dell’ultima legge promulgata dal Premier ungherese Viktor Orbán, il cui linguaggio somiglia spaventosamente a quello delle leggi nazifasciste del secolo scorso. I transgender, a cui dunque non viene più riconosciuta la possibilità di registrare il proprio cambiamento di sesso sulla carta d’identità, sono tuttavia solo la prima vittima dei superpoteri che il capo dell’esecutivo di Budapest si è autoconferito il 30 marzo e che gli permettono, con la giustificazione della pandemia, di governare a colpi di decreti, senza la necessità di consultare le opposizioni e libero da qualsivoglia limitazione temporale.
Il Parlamento, che Orbán controlla grazie ai numeri del partito Fidesz e a qualche voto dell’estrema destra, ha infatti promulgato – con soli 53 voti contrari – una legge speciale attraverso la quale il Premier magiaro potrà non solo adottare tutti i provvedimenti necessari ad affrontare la pandemia, ma anche chiudere il Parlamento, abolire le elezioni, modificare o abrogare leggi già esistenti. Potrà inoltre condannare a pene fino a 8 anni di carcere chi, positivo al coronavirus, non rispetti la quarantena ma, soprattutto, con pene fino a 10 anni, la stampa che si renda colpevole di diffondere intenzionalmente false notizie che ostacolino la risposta del governo alla crisi sanitaria. Si tratta chiaramente di uno strumento di controllo nei confronti dei dissidenti e di chiunque voglia fare chiarezza sulla reale portata del COVID-19 in Ungheria.
I numeri aggiornati al 4 aprile parlano di 623 contagiati e di 26 vittime, tuttavia potrebbe trattarsi di dati non reali poiché sono stati effettuati pochissimi test – solo 13300 per l’intera popolazione – e sono del tutto inesistenti i dispositivi di protezione individuale, così come insufficienti i respiratori, risultati evidenti dei tagli alla sanità che si sono susseguiti nel Paese in questi anni e che ora Orbán tenta di nascondere avocando a sé pieni poteri. In quanto a censura, però, il Premier ungherese è in buona compagnia in tutto il mondo: come denunciato dal Commitee to protect journalists, sono molti i governi che stanno utilizzando la pandemia e la conseguente crisi come pretesto per schiacciare il dissenso. Basti pensare che in India l’esecutivo in carica ha chiesto espressamente di legalizzare la censura perché informazioni false e imprecise potrebbero causare reazioni di panico tra la popolazione, per cui i media dovrebbero limitarsi alle sole informazioni ufficiali rilasciate dal governo. Dunque, si chiede ai giornalisti di essere semplicemente i ripetitori di informazioni già accuratamente selezionate dal potere centrale al fine di mantenere la popolazione sotto il proprio controllo ed evitare contestazioni. La Corte Suprema, dal canto suo, pur negando la possibilità di istituire un sistema ufficiale di censura, ha comunque invitato i media ad attenersi alle sole notizie ufficiali già divulgate.
In Giordania, Oman, Marocco, Yemen e Iran è stata sospesa la pubblicazione e distribuzione dei giornali; in Brasile il Presidente Jair Bolsonaro ha revocato la legge di trasparenza attraverso la quale i cittadini, richiedendo l’accesso a informazioni e documenti governativi, possono conoscere l’operato del governo: le autorità e le istituzioni non saranno più tenute a rispondere a questo genere di richieste. In Thailandia e nelle Filippine, intanto, sono state emanate leggi bavaglio per incarcerare i divulgatori di informazioni false e il Presidente Rodrigo Duterte ha ordinato di sparare a chiunque violi la quarantena, dopo che 21 persone erano scese in strada a Quezon City per chiedere tutele e aiuti al governo. In Turkmenistan è stata addirittura vietato l’utilizzo della parola coronavirus. In Turchia, invece, il regime ha negato fino a metà marzo che ci fossero contagi per poi iniziare ad arrestare chiunque criticasse la linea e i silenzi dell’esecutivo: già 410 persone sono finite in manette tra medici e giornalisti con l’accusa di incitamento al panico.
Come se non bastasse, misure simili a quelle ungheresi sono state adottate in Slovenia, dove il Primo Ministro Janez Jansa ha assunto pieni poteri istituiendo un’unità di crisi. Aggirando qualsiasi norma costituzionale e sostituendo i vertici delle strutture della sicurezza e dell’intelligence con persone a lui vicine, anche qui i giornalisti, oggetto di intimidazioni e minacce, non riescono ad accedere a informazioni certe.
Gli esempi potrebbero essere molti altri, ma non sono la sola libertà di stampa e il diritto di informazione a star subendo un pericoloso attacco: in America, ad esempio, molte cliniche per l’interruzione volontaria di gravidanza sono state chiuse poiché non fornirebbero un servizio medico essenziale, negando così il diritto all’aborto. Texas e Ohio hanno per esempio dichiarato che la stessa attrezzatura può essere utilizzata per il trattamento dei pazienti COVID, tentando così di innescare empatia e giustificare la negazione di un fondamentale diritto. Alla lista, però, si aggiunge anche l’Italia, dove abortire in questo periodo è diventato sempre più difficile poiché molti consultori sono chiusi o si rifiutano di prendere nuovi appuntamenti, pur trattandosi di servizi medici che se non attuati immediatamente potrebbero diventare impossibili o inutili con il passare di un solo giorno. ProVita ha addirittura presentato una vergognosa petizione con cui si chiede di sospendere gli aborti volontari.
A rischio è dunque la tenuta dell’intero sistema democratico poiché, attanagliati dalla paura e dal naturale attaccamento alla vita che contraddistingue l’essere umano, rischiamo di accettare in maniera acritica politiche securitarie eccessive che eliminano diritti fondamentali. Si parla a questo proposito di uno stato d’eccezione, che altro non è che una sospensione dei diritti, in cui il rischio di abusi è enorme e tangibile, impossibilitati come siamo ad appellarci a diritti certi di fronte al dilagare del potere politico in sfere che non gli competerebbero. Ma, probabilmente, il pericolo più grande è che questo stato d’emergenza perduri anche dopo il superamento della crisi sanitaria, giustificandolo con la necessità di salvaguardare la sicurezza dei cittadini.
Certamente l’ultima mossa di Orbán è solo il culmine di un percorso autoritario che dura da ben 10 anni e che si è svolto sotto lo sguardo disattento e complice delle istituzioni europee. Pur avendo avviato una procedura contro Budapest poiché in Ungheria i normali strumenti democratici oramai non funzionano più, Orbán è certo di essere al sicuro in quanto ha dalla sua parte la Polonia che impedisce di raggiungere l’unanimità necessaria per la sospensione degli aiuti che il Premier ungherese continua a ricevere dall’Unione Europea, pur portando avanti una politica che si pone in palese disaccordo con i valori che reggono l’Unione stessa.
Il capo dell’esecutivo di Budapest – che si è sempre contraddistinto per la sua linea conservatrice, xenofoba, autoritaria, omofoba e ha proibito studi accademici e universitari sul tema gender o qualsiasi dibattito su unioni diverse dal tradizionale matrimonio eterosessuale – oggi riceve poteri pieni e temporalmente illimitati, se non per sua diversa volontà. A tal proposito Agnes Vadai, del partito di minoranza Coalizione Democratica, ha dichiarato che le opposizioni hanno tentato di chiedere una clausola di 90 giorni, così come avvenuto in altri Paesi come Francia e Regno Unito dove i poteri emergenziali sono stati circostritti nel tempo, ma senza alcun risultato. Viktor Orbán, infatti, li ha accusati, con la solita retorica sovranista, di essere dalla parte del virus. Ha inoltre ribattuto, di fronte alla preoccupazione internazionale, di non avere tempo di discutere con i frignoni europei di questioni giuridiche poiché impegnato a salvare vite. Gli eurodeputati dovranno riunirsi nelle prossime settimane e si spera prenderanno provvedimenti seri: una soluzione potrebbe essere il ricorso alla procedura di cui all’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea che permette di sospendere i diritti di adesione per violazioni gravi e persistenti dei principi fondanti dell’Unione Europea.
In palese contraddizione con quest’avocazione di poteri, in Ungheria le misure adottate per contrastare il virus sono molto più blande di quelle italiane, potendo i cittadini uscire per andare a lavoro, dal medico o per svolgere commissioni e, secondo quanto riportato dai media locali, anche per partecipare a matrimoni e funerali, svolgere sport o accompagnare i bambini all’asilo. Dunque, ciò che è avvenuto altro non è che un vero e proprio colpo di Stato, camuffato dallo scudo della pandemia in corso.
E mentre un portavoce di Orbán sancisce a gran voce che come durante una guerra, lo stato d’emergenza può durare fino alla fine delle ostilità, arriva il plauso di Meloni e Salvini, che definisce quanto accaduto una scelta democratica, augurando buon lavoro all’amico Viktor. Le misure adottate in Ungheria sono state definite da entrambi molto simili a quelle di Conte, ma il paragone è un’offesa ai cittadini magiari che vivono sulla propria pelle un’ingiustizia enorme. Lo stesso utilizzo di termini bellici e del lessico militare ci fa precipitare nell’ottica dell’ineluttabilità delle misure adottate: la volontà di trionfo sul nemico e il bisogno di sicurezza ci rendono disponibili ad accettare compromessi al ribasso sui diritti.
Ma il pericolo che si annida dietro l’angolo è che le misure accettate di buon grado in tempi così difficili, in cui ci appaiono necessarie, poi non vengano più revocate. In Ungheria, questo è già accaduto con lo stato di crisi dovuto all’immigrazione di massa sancito nel 2015 e ancora in vigore. Addirittura, ora Orbán è riuscito a creare un nesso tra immigrazione e coronavirus, colpendo con l’espulsione 15 ragazzi iraniani che, secondo i media, non avrebbero rispettato la quarantena, etichettandoli come untori.
Neppure l’Italia è immune dal rischio di rendere leggi ordinarie quelle adottate inizialmente in veste di leggi emergenziali, come già avvenuto con l’art. 41 bis introdotto nell’ordinamento penitenziario nel 1992 con il limite temporale di 3 anni e poi reso norma ordinaria. Dunque, il pericolo è che da reale l’emergenza diventi presunta e rafforzi forme di potere accentrato. Per questo, in un momento in cui la paura è il sentimento sociale dominante che accomuna tutti e orienta le politiche, bisogna restare lucidi e tenere bene a mente l’esempio offerto dal Premier ungherese: il rischio di derive autoritarie riguarda tutti e, come sostenuto da Maurizio Turco pochi giorni fa, non c’è cura che tenga se a infettarsi è la democrazia.