Giosuè: Perché i cani e gli ebrei non possono entrare, babbo?
Guido: Eh, loro gli ebrei e i cani non ce li vogliono. Eh, ognuno fa quello che gli pare Giosuè, eh. Là c’è un negozio, là, c’è un ferramenta no, loro per esempio non fanno entrare gli spagnoli e i cavalli eh, eh… E coso là, c’è un farmacista, no, ieri ero con un mio amico, un cinese che c’ha un canguro, dico: “Si può entrare?”, dice: “No, qui i cinesi e i canguri non ce li vogliamo”. Eh, gli sono antipatici oh, che ti devo dire, oh?!
Giosuè: Ma noi in libreria facciamo entrare tutti.
Guido: No, da domani ce lo scriviamo anche noi, guarda! Chi ti è antipatico a te?
Giosuè: I ragni. E a te?
Guido: A me… i visigoti! E da domani ce lo scriviamo: “Vietato l’ingresso ai ragni e ai visigoti”. Oh! E mi hanno rotto le scatole ‘sti visigoti, basta, eh!
È davvero difficile trovare qualcuno che, almeno una volta nella vita, non abbia visto La vita è bella, il celebre lungometraggio pensato e realizzato dal comico italiano Roberto Benigni. Che l’abbiate amato, odiato o criticato, non ha molta importanza al momento. Ciò che, invece, risulta pregnante, in questi ultimi giorni, è l’analisi della celebre scena in cui il piccolo Giosuè legge per la prima volta un cartello con su scritto Vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani. Durante la Seconda guerra mondiale, difatti, era estremamente comune trovare avvisi di questo genere all’entrata dei negozi, dove alcune persone – a causa di un connotato culturale, come la religione – venivano escluse dalla vita pubblica e dalle interazioni di base.
In molti avranno ripensato a questo famoso episodio, in seguito alla notizia che ha visto il proprietario di una casa vacanze, situata a Santa Maria a Ricadi, nel vibonese, rifiutare di affittare la propria dépendance a una coppia di villeggianti omosessuali, dopo aver dichiarato attraverso un messaggio di non accettare gay e animali.
Non sono mancate accesissime reazioni sul web, seguite quasi in tempo reale dalle giustificazioni dell’affittuario. Le motivazioni alla base di questa determinata scelta sarebbero da ricondurre al fatto che i proprietari dell’abitazione sono favorevoli alla famiglia tradizionale e, avvalendosi della propria libertà personale, si sarebbero sentiti autorizzati a privare alcuni individui, sulla base del loro orientamento sessuale, della possibilità di fittare e godersi le vacanze nella località calabra.
Non sono inusuali questi goffi inni alla libertà, provenienti spesso da persone e situazioni per le quali si deve legittimare un atteggiamento di esclusione. Ma è davvero di libertà che stiamo parlando? A rileggere il terzo articolo della Costituzione italiana parrebbe proprio di no.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Ad accompagnare questo celebre passaggio, ci sono, inoltre, i decreti 215 e 216 del 2003, nati per tutelare e difendere da discriminazioni dirette e indirette le persone LGBTQI e per garantire loro un trattamento equo.
Risulta evidente, allora, che l’albergatore calabrese non avrebbe potuto seguire le proprie credenze per operare una selezione arbitraria tra i suoi ospiti, appellandosi a una presunta forma di autodeterminazione. La libertà, come diceva Giorgio Gaber, non è uno spazio libero, non è un magma indefinito in cui riversare qualsiasi azione o qualsiasi desiderio, ignorandone le possibili conseguenze. Ogni atto libero è anche un atto responsabile, è un gesto intersoggettivo, è partecipazione.
Non si può, dunque, in alcun modo accettare – socialmente, oltre che legalmente – questo lassismo nei confronti delle tutele verso l’Altro, dove si invoca il diritto a poter dire o fare tutto ciò che si vuole. Oggi sono le coppie omosessuali a non poter accedere a una dépendance, ieri erano gli ebrei a non poter entrare in un negozio.
Attraverso questo parallelismo non si vuole in alcun modo generare polemiche sterili nei confronti degli accusati, bensì sottolineare il carattere di totale arbitrarietà nelle scelte discriminatorie. A imporre questi dettami, governati dal pregiudizio e dall’ignoranza, sono sempre schemi sociali dominanti, dove esistono paradigmi di normalità e di anormalità, dove si generano le categorie che permettono o meno a un essere umano di farsi un nuotata nei pressi di Vibo Valencia. Lo stress che vivono migliaia di persone LGBTQI è dovuto all’incapacità della società di assimilarle, di sentirle come parte di un unico corpo e di includerle nell’immaginario collettivo.
L’albergatore, oltre a esprimere un proprio giudizio morale, di certo si sarà chiesto in che modo l’ambiente circostante avrebbe reagito alla presenza di determinati ospiti. È in questa incomprensione di fondo che risiede il cuore della questione, non nelle scelte di un individuo solo. Ed è su questa pigrizia del pensiero che bisogna operare, senza riversare dell’odio estemporaneo – e, quindi, vacuo – nei confronti di un singolo. La strada per la serenità e la vivibilità di molti soggetti discriminati è ancora lunga, ma è necessario sfruttare ogni episodio affinché la società continui a interrogarsi su se stessa. Senza pietismi e rancori, ma con lucide analisi e pratiche inclusive.