È con grande entusiasmo che annunciamo l’uscita del nuovo album di Valerio Bruner, talentuoso cantautore partenopeo. Intitolato Vicarìa, questo lavoro segna un’importante svolta nella carriera dell’artista: diversamente dai suoi precedenti album, infatti, Bruner ha deciso di utilizzare il suo dialetto nativo, il napoletano.
Il salto è avvenuto durante la scrittura di Sempe Ccà (per Mario Paciolla), brano in cui il cantautore invoca giustizia per un amico scomparso, di cui tutti conosciamo il nome. Mario Paciolla fu ritrovato morto a San Vicente di Caguán, in Colombia, e i suoi amici più cari non hanno mai smesso di cercare verità e giustizia, anche di fronte alle richieste di archiviazione del caso: «Mario era un caro amico – ci racconta il cantautore – Non potevo scrivere di lui in una lingua distante da noi, dal modo in cui parlavamo». E infatti le emozioni sono più dirette e intense, arrivano all’ascoltatore senza filtri. «Esatto, filtri: tra me e il pubblico ce n’era uno, quello dell’inglese. Quasi mi ci nascondevo – continua Bruner – ma poi mi sono reso conto che la potenza espressiva del napoletano è incredibile».
La musica di Valerio è sempre stata influenzata dall’America di Bruce Springsteen e Johnny Cash, ma non stavolta. Il mondo di Vicarìa è quello dei vicoli napoletani, della vecchia municipalità che da Mercato si estendeva a Garibaldi per salire fin sopra a Forcella. Si tratta dei vicoli abitati dal cantautore: non il centro storico o i Quartieri Spagnoli, quella Napoli oleografica dove tutto sembra sole e bellezza, ma i vicoli scuri, popolari, disagiati. Quelli abitati da senzatetto, criminali, prostitute.
«Paradossalmente, forse questo è l’album più vicino a Springsteen e Cash: al loro raccontare il loro mondo, nella loro lingua. E ora lo sto facendo anch’io. Voglio denunciare ciò che ho sempre sotto i miei occhi. Il cantautore, secondo me, deve essere un campanello d’allarme».
E spezzano il cuore le storie di Vicarìa: dal clochard di Ave Maria, che muore sulle scale di via Duomo nell’indifferenza di tutti (anche quella di Dio), alla prostituta transessuale di Core Mio, che nell’amore ci crede ancora. La voce graffiante di Bruner non ci risparmia la loro disperazione.
Sono ringhi, suppliche inascoltate, i cui i ritmi blues si fondono alla viscerale religiosità napoletana che mescola sacro e profano, rabbia e preghiera. Vicarìa è un’esperienza musicale autentica, profonda, in cui Bruner torna alle radici e offre al pubblico un’opera profondamente personale.
«Napoli è come un Caravaggio – ci racconta – sono le ombre a dare senso al quadro, alla luce dei fatti». Dei Caravaggi sembrano anche le foto di Arianna Di Micco e Sofia Scuotto, che nel booklet di Vicarìa ci svelano angoli nascosti, edicole votive, crocifissi nell’oscurità: un lavoro di street photography evocativo e lacerante.
Questo disco, però, va oltre il semplice ascolto: il progetto di Bruner è quello di incidere in concreto sul territorio: «Suonare nei bar non mi basta più. Voglio andare nelle carceri, nei posti scomodi, girare i videoclip lì dove nessuno posa lo sguardo». Già in passato Valerio si è impegnato con raccolte fondi ed eventi di beneficienza, ma ora c’è uno step in più. L’artista ha deciso di fondare – assieme ad Alessandro Liccardo – la Santa Marea Sonora Records. Non solo un’etichetta che produrrà artisti napoletani, ma anche un polo culturale che unirà la musica al sociale.
Invitiamo tutti i nostri lettori a scoprire questo nuovo capitolo della carriera di Valerio Bruner e a sostenere il cantautorato napoletano indipendente: non solo per la bellezza e la ricchezza di questa scena musicale, ma perché vale la pena combattere per mantenere viva la cultura di questa città.