Quella per la parità di genere è una questione tanto delicata quanto estremamente fiacca nella sua progressione. Non è insolito chiedersi cosa ci sia ancora da fare dopo secoli di lotte teoricamente vinte e vige comunemente la convinzione che in realtà l’uguaglianza sia stata raggiunta. Eppure, ogni giorno si aggiunge un tassello, ogni giorno si ottiene una nuova conquista, dimostrando, da un lato, la tendenza a migliorare il mondo e, dall’altro, quanto siamo ancora lontani dal raggiungere una totale parità legale e sociale e quanto sia necessario continuare a combattere in ogni angolo della Terra. Pochi giorni fa, un’altra piccola conquista è stata raggiunta grazie a una sentenza della Corte Suprema bangladese che ha abolito la parola vergine dai moduli di richiesta matrimoniale.
Fino a ora per le donne del Bangladesh era stato necessario dichiarare ufficialmente una condizione strettamente privata e data per scontata, mentre agli uomini non era richiesto di specificare neanche lo stato civile. Con la sentenza, che verrà progressivamente messa in atto nei prossimi mesi, invece, le donne in attesa di convolare a nozze potranno scegliere tra i già consueti divorziata e vedova e la nuova opzione non sposata, mentre anche gli uomini, d’ora in poi, dovranno rendere noto questo tipo di informazioni. La sentenza è stata definita storica in un Paese in cui le leggi sul matrimonio sono da tempo criticate a causa dell’insistente componente discriminatoria e dell’inevitabile influenza religiosa anche nelle questioni civili.
La specifica finora richiesta è stata più volte attaccata dai gruppi attivi per la difesa dei diritti delle donne e spesso definita umiliante, nonché irrimediabilmente sessista. Dover dichiarare il proprio stato di verginità in vista delle nozze ha a che fare con termini religiosi e con discutibili requisiti morali, per questo non dovrebbe avere nulla a che fare con l’ufficialità e il potere temporale dello Stato. Ma non si tratta, purtroppo, solo di un’invasione di campo – altrettanto illecita, ma decisamente meno grave – perché la specifica è diretta solo alle spose, alle donne a cui è richiesta, se non imposta, pudicizia, al contrario degli uomini, per i quali, invece, non esiste alcuna condanna morale di promiscuità sessuale.
Il grande cambiamento che il Bangladesh si sta preparando ad affrontare per restituire dignità alle donne non rappresenta, però, solo un piccolo passo verso la parità di genere. Il momento storico in cui la decisione è arrivata rischia di rappresentare una ragione per sottolineare le differenze tra i Paesi del mondo: che una nazione orientale, tra l’altro a maggioranza mussulmana, abbia bisogno di tale sentenza sembrerà dimostrare che il mondo occidentale abbia di gran lunga raggiunto la tanto agognata parità di genere. Una conclusione affrettata a cui tanti arriverebbero pensando che in Italia nessuna donna debba dichiarare su moduli ufficiali la propria condizione sessuale o sia costretta dalla religione a indossare un velo. Eppure, per quanto sia facile incappare nel tranello, è necessario rendersi conto che la situazione, in Italia come negli altri Paesi che vantano il progresso, non è poi tanto diversa.
Lo stato civile definisce le donne molto più di quanto influisca sulle vite degli uomini: sebbene sia spesso richiesto a entrambi i generi di specificarlo su svariati moduli e pratiche di ordine burocratico, quando non è esplicitamente richiesto, per le donne è comunque specificato nell’appellativo. Gli uomini, di qualunque età e stato civile, sono sempre indicati con signore, mentre difficilmente si riesce a evitare di imbattersi nei molto più specifici signora e signorina, la cui necessità di precisazione indica la differenza di considerazione tra le sposate e le nubili. È vero che a partire dagli anni Ottanta l’uso di signorina per riferirsi a una donna non maritata è stato sconsigliato, ma il termine non è entrato realmente in disuso ed è ancora utilizzato in documenti e moduli ufficiali. In Italia, come in molti altri Paesi, non è mai stata approvata una legge che impedisca l’uso di un termine tanto impari e discriminatorio. Lo stesso Parlamento Europeo nel 2009 ha semplicemente consigliato di omettere gli appellativi che fanno riferimento allo stato civile delle donne.
E per quanto questo non entri nella sfera privata quanto l’ufficialità del vergine bangladese, non è affatto vero che qui non si conferisca la stessa importante disparità – seppur simbolica e non strettamente legale – alle medesime questioni. È consuetudine, infatti, sia per i riti religiosi che per quelli civili, che le donne al loro primo matrimonio indossino un abito bianco. L’abitudine, come spesso accade per le tradizioni, ha radici semantiche forse dimenticate ma che hanno tanto a che fare con l’imparità. Il bianco rappresenta la purezza, un requisito richiesto – per fortuna, ormai solo simbolicamente – alle spose e da cui gli uomini sono esenti. Non si tratta di una legge, non si tratta di un obbligo e rappresenta solo una tradizione alla quale ci si può sottrarre e di cui spesso non si realizza davvero il significato. Ma è un simbolo convenzionalmente accettato che si configura nella differenza tra ciò che è domandato a uomini e donne per essere idonei alle nozze. Una richiesta non poi così diversa da quella, finalmente abolita, che le spose bangladesi hanno dovuto affrontare fino a ora.
Bastano pochi esempi banali di consuetudini quotidiane per dimostrare un invisibile apparato discriminatorio su cui si fonda qualunque società. Il progresso verso i diritti di genere può essere a punti e tappe diversi nei vari Paesi del mondo e qualcuno ci arriverà ufficialmente prima di altri. Ma il viaggio per una vera parità, per una parità morale e sociale, per un’uguaglianza non solo nei diritti ma anche in tutte le forme della vita pubblica e privata, è ancora tristemente irraggiungibile in ogni angolo di civiltà.