Nel marzo del 2019, il governo guidato da Giuseppe Conte e retto dalla maggioranza formata dall’alleanza tra MoVimento 5 Stelle e Lega firmava un accordo commerciale senza precedenti per il nostro Paese: la Via della Seta, ossia un complesso memorandum d’intesa tra l’Italia e la Cina che mirava a intensificare i rapporti economici tra i due Stati.
L’intesa raggiunta dall’attuale leader dei pentastellati e il Presidente Xi Jinping si prefissava l’ambizioso obiettivo di ricostruire gli itinerari percorsi da Marco Polo nel 1271 al fine di esportare i rispettivi prodotti tra l’Asia e l’Europa e accrescere, di conseguenza, il sistema produttivo degli Stati coinvolti. Per raggiungere gli obiettivi dichiarati, la Cina avrebbe adoperato i porti delle città di Trieste e Genova trasformandoli in veri e propri punti d’approdo per le merci in arrivo da Pechino da smistare, poi, in tutto il Vecchio Continente.
Il ritorno economico dell’operazione (almeno per quanto riguarda gli affari di Roma) avrebbe dovuto tradursi non soltanto in un cospicuo incremento dell’export, ma – soprattutto – nell’opportunità di un piano di investimenti di ammodernamento dei siti individuati che mirava a un’inevitabile crescita dell’occupazione. Con oltre 900 miliardi di dollari, Pechino ridisegnava gli equilibri economici mondiali.
Con il protocollo d’intesa che si rinnoverà automaticamente nel 2024, non sorprende che il Governo Meloni, in queste settimane, si stia interrogando sulla delicata questione se continuare a investire nel progetto Via della Seta, e dunque cancellare – in un colpo solo – l’egemonia degli USA sulle questioni politiche ed economiche europee e fare spazio a Pechino, oppure rinunciarvi, assicurando l’ordine delle cose vigente. I dubbi erano già tanti nel 2019 e non possono non destare oggi maggiori preoccupazioni, con lo scacchiere del mondo agitato dalla guerra tra l’Ovest e la Russia, e la Cina primo spettatore di un conflitto che, dovesse allargarsi, vedrebbe in Xi Jinping quale principale minaccia per l’intero blocco occidentale.
Certo, non dev’essere un caso che il tema Via della Seta sia tornato così prepotentemente sul tavolo delle trattative proprio in questi giorni, quando la Premier Giorgia Meloni incontrava a Washington il Presidente americano Joe Biden. Il caro Sleepy Joe – come apostrofato dal rivale Donald Trump nel 2019 –, c’è da scommetterci, avrà adoperato ogni argomento in proprio possesso al fine di gettare tutta l’acqua possibile su un fuoco che avrebbe visto gli Stati Uniti rischiare di perdere il controllo delle terre al di là dell’Atlantico.
Ricevuta alla Casa Bianca, Meloni ha superato, nel corso di un pomeriggio, le reticenze che l’ala democratica della politica a stelle e strisce nutriva nei suoi confronti. «Siamo diventati amici» ha esordito il Presidente accogliendo la leader di FdI nel suo ufficio, ancor prima di ribadire l’appoggio incondizionato nel sostegno all’Ucraina e gioire delle posizioni atlantiste del Capo del governo italiano, a dispetto del passato filo-putiniano dei suoi alleati di Lega e Forza Italia.
Il tema Via della Seta è stato liquidato da Giorgia Meloni in poche parole durante la conferenza stampa successiva all’incontro, quando ha assicurato di non essere stata costretta a uscire dall’accordo, ma è probabile che succeda comunque. Non è certo un mistero che i rapporti tra USA e Cina siano peggiorati notevolmente negli ultimi anni – con la questione Taiwan a tenere in bilico le sorti del mondo intero –, per cui è lecito immaginare che il Presidente Biden abbia fatto leva sulla centralità di un Patto Atlantico stabile e coeso, senza il rischio di ingerenze di Stati potenzialmente ostili.
A dispetto di quanto dichiara Meloni («Via della Seta? Non ho ancora deciso. Andrà discussa con la Cina e con il Parlamento»), la scelta del governo italiano è già stata fatta e verrà resa nota nel corso del prossimo autunno. Le recenti dichiarazioni del Ministro della Difesa, Guido Crosetto, non lasciano dubbi in tal senso, semmai pongono – ancora una volta – l’interrogativo della coerenza politica e istituzionale degli elementi che compongono la maggioranza. Non va scordato che la scelta scellerata che Crosetto attribuisce a Giuseppe Conte fu, in realtà, caldeggiata dalla Lega di Matteo Salvini, allora – chissà – felice all’idea di fare un dispetto al vecchio Zio Sam e slacciare l’Italia dalle logiche comunitarie, giacché unico Paese del G7 ad aderire al progetto di Pechino.
Secondo il Ministro, l’Italia non avrebbe goduto di alcun ritorno economico dall’accordo, mentre le esportazioni della Cina verso le nostre coste sarebbero lievitate considerevolmente. Da 13 miliardi di euro, l’export italiano è, infatti, cresciuto verso Pechino solo fino a 16,4. Al contrario, i 31,7 miliardi d’indotto dello Stato asiatico sarebbero aumentati di colpo fino a 57,5. Insomma, un affare a senso unico che, però, non tiene conto del fatto che gli investimenti cinesi sui porti italiani sarebbero partiti successivamente alla stipula dell’accordo, ancora non avvenuta.
Così come nel 2019, il giudizio sulla bontà dell’operazione Via della Seta resta sospeso. Troppo fumosi i dettagli, nebbiosa l’aria attorno alle strette di mano consumatesi con Pechino prima e con Washington nei giorni scorsi. Certo, le domande su un’irripetibile occasione di crescita e ritrovata centralità del nostro Paese nei ruoli legati agli accordi internazionali resteranno senza risposta a tormentarci per anni, così come impossibile sarà non pensare alla guerra e credere che questa nuova rotta tra la Cina e l’Europa abbia svolto qualche ruolo, seppur indiretto.
L’unica sensazione che resta, al di là di ogni ragionevole considerazione o dubbio di tutte le parti coinvolte, è la riprovata inconsistenza dell’Italia e della sua sovranità, un Paese che non ha una voce che non sia l’eco del padrone di turno. E il padrone, ancora una volta, veste i colori della bandiera di Washington.