A mezzogiorno del 16 novembre 1897 George Gissing, scrittore vittoriano squattrinato e dalla salute già cronicamente compromessa dalla tisi, lasciava Napoli, “il luogo più meraviglioso e più terribile d’Europa”. Quattro giorni prima, lo scrittore inglese aveva dettato il suo testamento a Mr. Rolfe, un funzionario del Consolato Britannico della città partenopea, e aveva deciso di prendere un battello diretto a Sud, per scendere fino in Calabria, a Paola.
Cominciava così, a bordo del piroscafo Florio, il suo atipico Grand Tour, un viaggio che lo avrebbe portato da Napoli a Reggio Calabria e ritorno, passando per Paola, Taranto, Crotone (all’epoca Cotrone), Catanzaro e Squillace, attraversando i due mari del mito e la geografia di quella che nei tempi antichi fu nota come Magna Grecia.
Gissing fu l’ultimo degli inglesi e dei grandi viaggiatori a visitare, sul finale dell’Ottocento, le regioni dell’estremo sud della penisola. Un viaggio da sempre agognato, ma realizzato quando già l’incalzare del moderno celava le tracce più antiche, archeologiche, persino mitiche, di un tempo che non era più. Lo scrittore, infatti, compare sulla scena di quella che aveva immaginato in gioventù come the Land of Romance al tramonto di un secolo che stava definitivamente cancellando l’ultimo riflesso dell’antico retaggio auratico. Un sentimento che lo accompagna in ogni terra, bettola, incontro, museo perduto, con un fare tra il nostalgico e l’immaginifico, lucidamente critico e dolcemente romantico.
A restituirgli la voce, a circa centoventicinque anni da quel mattino di novembre, è Mauro F. Minervino, che si è occupato, per i tipi di Exòrma Edizioni, della traduzione e della curatela di quello che la letteratura conosce come By the Ionian Sea. Pubblicato al ritorno in patria in volume nel 1901, e prima, nel 1900, in edizione a puntate su The Fortnightly Review, una delle riviste più importanti e influenti dell’Inghilterra del XIX secolo, Verso il Mar Ionio – così nella versione italiana – si presenta in traduzione integrale, arricchita di disegni e schizzi originali dello stesso Gissing, di appunti e note autentici, di lettere che lo scrittore spedì durante la sua traversata, nonché di un testo inedito di Virginia Woolf. Un’appendice che, impreziosendo il volume, si concentra sul ruolo di Gissing nella letteratura britannica, definendolo non ancora popolare e non ancora veramente famoso, ma sottolineandone le qualità, uniche, della produzione: Gissing fu sicuramente uno scrittore nato. Sorprende che ancora oggi non abbia una eco tale da risuonare insieme a quella di tanti che, nel suo tempo, scrissero e raccontarono il mondo. Le classi subalterne, soprattutto.
La sua intera opera ruota, infatti, intorno ai ceti più poveri, ai marginalizzati, alle periferie, tra vicoli stretti e tuguri malsani, tra il grigiore di Londra e il silenzio di una Napoli irriconoscibile nella sua quiete. Egli stesso, a differenza di molti suoi contemporanei che pure vollero raccontare gli ultimi, sperimentò quotidianamente la povertà e la miseria. Finì ai lavori forzati per redimere una prostituta, rubò vestiti e qualche oggetto ai suoi compagni per permetterle di coprirsi, la prese in sposa. Scrisse per guadagnare qualche soldo, si rifugiò nell’antico per sopravvivere alla bruttura di una società proiettata verso un infausto futuro.
Fu più o meno con questo spirito che intraprese il viaggio verso il Mar Ionio, per scoprire quel vecchio mondo che era stato la gioia immaginativa della sua infanzia. Aveva già visitato la penisola, ne conosceva usi e genti, eppure, all’indomani dall’Unità di Italia, si ritrovò in un Paese nuovo, unificato ma diviso, dove inoltrarsi in un posto più a sud di Napoli veniva considerato alla stregua di una stravaganza incomprensibile e partire per andare in Marocco o per approdare in Calabria era all’incirca la stessa cosa. Inaudita, ovviamente.
Di nuovo lo scirocco offusca tutta Napoli avvolgendo ogni cosa in un grigiore disgraziato, una coltre priva di luce e di allegria. Ma è scoraggiante sotto qualsiasi cielo osservare i cambiamenti della Napoli di adesso. Lo sventramento di vecchi quartieri continua, diversi distretti della città si trasformano da un giorno all’altro. È una buona cosa, suppongo, […] ma che contrasto tra la originaria e pittoresca confusione di un tempo e la volgarità cosmopolita che oggi ha usurpato il suo posto! “Napoli se ne va!” e, con essa, la musica per le strade, ritmi banali, anche volgari, se volete, ma queste musiche di strada e queste melodie tradizionali sono sempre state care alla Napoli popolare.
Lo scrittore partì, allora, alla volta di Paola, inevitabile tappa del suo viaggio trasognante e solitario, spaesato lungo i sentieri di una Calabria selvaggia e umana reso ancora più surreale, come inasprita dall’inesauribile calpestio compiuto sulla terra dal passo pesante del tempo. Nuove figure sociali, strutture urbanistiche, il paesaggio naturale che si fa industriale, Gissing si ritrovò, suo malgrado, testimone di una modernizzazione distruttiva, carica di tensioni, eterogenea e frammentata, tipica di un periodo postunitario che ancora oggi caratterizza gran parte del Mezzogiorno di Italia.
Non mancano, a tal proposito, appunti e aneddoti, commenti dell’una o dell’altra stortura: l’assenza della gestione della cosa pubblica, l’incuria, treni inesistenti, corriere in ritardo, strutture ricettive fatiscenti e logore, musei che c’erano stati e ora non c’erano più, rovine antiche ormai andate perse, distrutte, abbandonate. Addirittura rovine di cui gli stessi locali non erano a conoscenza. Eppure, Gissing immaginava la Calabria come uno scrigno di memorie, un involucro senza tempo di giorni eterni in cui i lasciti luminosi del mondo classico dei greci riposavano accanto all’eredità preziosa di Roma. Memorie custodite più nel suo desiderio di visitatore che nell’attenzione di chi avrebbe dovuto proteggerle.
Pur sottolineando criticità e disapprovazione, nel suo diario di viaggio Gissing non smise mai di stupirsi: per i contrasti tra le grandi foreste di conifere secolari della Sila e le terre desolate, ad esempio, o per una discarica a cielo aperto nel ben mezzo di una città cuore della Magna Grecia, là dove si aspettava di trovare Pitagora e antichi splendori. Ciononostante, per Gissing, la Calabria era dopotutto il posto più vicino al paradiso che avesse mai sperato di raggiungere.
Chissà come sarà stato, per un lettore dei primi del Novecento, approcciare a un testo come Verso il Mar Ionio. Forse, appresa la sua sincerità, possiamo comprendere quanto, in un mondo proiettato verso la modernità, risultasse ostico leggerne il fallimento in luoghi un tempo al centro della storia e, di colpo, ai margini di una rivoluzione e di un’Unità che non furono e non sarebbero state. Oggi, nell’Italia del Terzo Millennio, un po’ si sorride e molto si abbozza per non ammettere che più che dinanzi a un diario di viaggio siamo al cospetto di un’analisi critica tanto lucida quanto attuale.
Un esempio, forse su tutti, è la domanda che Gissing si pose su Taranto e su come i suoi abitanti ne immaginassero il futuro. Un quesito che ancora adesso non possiamo fare a meno di porci pensando a quella che rappresenta la sintesi dell’intero Paese: l’Ilva, la sua vicenda, l’assurdità di un mostro che sovrasta e inghiotte l’intera comunità.
Chiuderla sarebbe una tragedia, tenerla in funzione – di fatto – già lo è. Non esiste una soluzione, la politica non è in grado di trovare rimedio e l’opinione pubblica si affanna a cercare colpevoli, laddove gli unici innocenti sono i lavoratori e le loro famiglie costretti a un’unica scelta: morire di fame o morire di cancro. Chissà cosa direbbe, oggi, Gissling nel ripercorrere quelle terre. Terre che in piena emergenza sanitaria hanno visto le istituzioni invocare gli “007”, Emergency, uomini armati di armi e non di dispositivi di sicurezza, come a dire che quelle erano – e sono – zone di guerra.
Chissà cosa direbbe dello sventramento di Napoli, di una rete ferroviaria che ancora non è degna di nota, di una Calabria stupenda, eppure insozzata da luoghi comuni e comuni villani. Chissà se scoprendo la meraviglia di quello che è stato il modello Riace riuscirebbe a saziare la sua fame di antichità, di valori ideali e pre-romantici, di bello. Perché bella è l’umanità.
Perché ero venuto qui, se non perché amavo questa terra e la sua gente? E non avevo io già ottenuto la ricompensa, tanto più riccamente corrisposta, quanto immeritatamente ricevuta in dono da loro per questo mio amore?