Non ho scritto storia né storie, e, per questo, non uso protagonisti, a parte la varietà di persone che sono stato. Nessuna di loro esiste realmente, perché scientificamente parlando, niente esiste «realmente». Le cose sono sensazioni nostre, senza oggettività determinabile; e io, a mia volta sensazione di me stesso, non posso credere di essere più reale delle altre cose. Sono, come tutti, una finzione dell’«intermezzo», falso come le ore che passano e le opere che restano, nella rotazione subatomica di questo inconcepibile universo. pessoa
Questa è la risposta che Fernando Pessoa diede al suo intimo amico Augusto Ferreira Gomes, quando questi gli inviò un questionario, composto da sei domande, destinato alle pagine culturali del giornale A Informação. Tale incipit, tuttavia, non è del tutto preciso. L’intervistatore, difatti, non aveva alcuna intenzione di interrogare Fernando Pessoa, bensì Álvaro De Campos, uno dei suoi eteronomi. Chiedendogli – forse ingenuamente, forse astutamente – se qualcuno dei protagonisti dei suoi libri fosse esistito realmente, Gomes intendeva aprirsi un varco all’interno della mente frammentata e ipercreativa dell’autore.
L’idea di effettuare una depersonalizzazione e, in seguito, una pluralizzazione della sua soggettività è alla base della poetica dello scrittore portoghese. Tuttavia, peccando di imprecisione, potremmo dire che questa pratica, in realtà, è una necessità scrittoria, un pretesto psichico volto a facilitare le vie espressive. L’autore non può esprimersi, basandosi esclusivamente sulla propria voce, ma può farlo partendo dalla biografia, dall’indole e dai gusti di qualcun altro. Un eteronimo, appunto.
Nell’introduzione alla raccolta di lettere pessoane, intitolata Perché sognare di sogni non miei?, de L’Orma Editore, il critico letterario Lorenzo Flabbi ben delinea le differenze costitutive che intercorrono tra pseudonimo ed eteronomo. Quest’ultimo, difatti, ha una personalità che gli è propria e che non sostituisce quella dell’autore (detto per contrasto: ortonimo), bensì la affianca, ci convive, la estende e, in qualche caso, la contraddice.
In un’altra lettera all’amico e scrittore Adolfo Casais Monteiro, Pessoa illustra la genesi di questa ricca e variegata “famiglia interiore”. Racconta di essere sempre stato incline a crearsi attorno un mondo fittizio, a circondarsi di amici e conoscenti mai esistiti. All’età di sei anni, diede vita al primo personaggio, un certo Chevalier de Pas, tramite il quale indirizzava lettere a se stesso. Il giovane Pessoa si affezionò in modo sincero al suo interlocutore, tanto da doversi concentrare duramente per tutto il resto della vita al fine di ricordarsi che il “cavaliere inesistente”, appunto, non esisteva. A partire da questa esperienza infantile, l’autore non seppe mai più separarsi da questa tendenza a creare attorno a sé un altro mondo, uguale al nostro ma popolato di altre persone. La sua immaginazione non fu mai più in grado di tornare, a patto che lo fosse mai stata, unitaria.
Interrogandosi sulla peculiarità della sua condizione psico-creativa, lo scrittore portoghese annotò su di un quaderno d’appunti una domanda, ancora oggi aperta e particolarmente esplicativa:
Ho scoperto che la letteratura è un modo servile di sognare. Ma se devo sognare, perché sognare di sogni non miei?
Liberi dalla pretesa di generare una diagnosi clinica su Fernando Pessoa, la quale non altererebbe in alcun modo la percezione della sua preziosa produzione letteraria, non possiamo che rimanere affascinati dalla sua complessità interiore. Un uomo che esprime la sua unicità nella distensione molteplice dei suoi atti letterari è destinato a passare attraverso i secoli per parlare all’animo di ognuno di noi.
Semmai nessuno, di fatto centomila, sicuramente non uno.