Quella di Monika Ertl è una storia di amore e rivoluzione, di vendetta e passione, di giustizia e coraggio. È la storia di chi non ha avuto paura, ma ha affrontato il nemico aspettandolo, guardandolo negli occhi, magari sorridendogli. Il racconto di una donna che non ha dimenticato, non avrebbe potuto, di un viaggio rincorrendo un volto, un nome, una divisa che le hanno strappato via tutto, l’amore per un uomo e l’amore per un ideale. È la storia di chi la storia l’ha fatta, nel fragoroso riverbero di tre colpi di pistola.
Corpo nudo a metà, barba incolta, capelli lunghi e scuri, occhi fissi nel vuoto. L’ultima immagine nota di Ernesto Guevara lo ritrae esattamente così: supino, bello come sempre, un Cristo privato della sua croce. Al capezzale, alcuni uomini in divisa ne rivendicano, fieri, la morte. Tra questi, Roberto Quintanilla Pereira, dapprima colonnello dell’esercito boliviano, poi console in Germania. È il 9 ottobre 1967 quando il Che, il più grande rivoluzionario dell’epoca moderna, viene assassinato nel corso di un’imboscata. A succedergli Inti Peredo, anche lui, due anni dopo, vittima della stessa mano armata, quella del torturatore nativo della Bolivia che, come nel caso del medico argentino, posa trionfante accanto al guerrigliero ormai inerme. È il 9 settembre 1969.
Intanto, una giovane donna di origini tedesche memorizza quel volto che la storia ha ormai eternato e fa una promessa a se stessa e a chi in quel sogno di uguaglianza crede ancora: i due feroci omicidi non resteranno impuniti. Imilla, così si fa chiamare, ha il cuore a pezzi, ma la forza di una giovane indigena. Come molte famiglie naziste o comunque vicine al regime, anche la sua ha lasciato la Germania per trasferirsi in Sud America, sperando di scampare alla probabile rovinosa fine post Seconda guerra mondiale. Suo padre, Hans Ertl, infatti, è conosciuto come il fotografo di Hitler, sebbene non sia lui l’iconografo ufficiale del dittatore. Qualcuno lo chiama il nazista, un nome che non ama particolarmente, nonostante esibisca volentieri una di quelle giacche realizzate da Hugo Boss per l’esercito tedesco e apprezzi circondarsi di personaggi vicini al Führer come Klaus Barbie, il Boia di Lione, ex capo della Gestapo nella città francese. Monika – questo il vero nome di Imilla –, invece, sin da piccola si scopre vicina agli ultimi, sensibile a tematiche e sentimenti che nel corso degli anni la portano sempre più lontana dal nucleo familiare e da quel genitore che le ha insegnato a essere fotografa e documentarista e che la adora come un figlio maschio, lei che sa sparare come un uomo.
Già comunista convinta, è proprio la morte del Che – che ai suoi occhi è come un dio – a spingere Imilla la rivoluzionaria ad arruolarsi tra le fila della guerriglia armata, dove conosce Inti Peredo e se ne innamora, combattendo a lungo al suo fianco. Roberto Quintanilla Pereira, però, dopo il celebre oltraggio a Ernesto Guevara, al quale amputa le mani, tortura e uccide anche il suo amante boliviano. Tutto l’amore inespresso per il suo compagno quanto per l’ideale che insieme a lui ha difeso in memoria del Comandante si fa presto desiderio di vendetta. Se una rivoluzione è vera, o si vince o si muore. Senza dubbio, Monika vuole vincere.
In un giorno di marzo del 1971, allora, dalla Bolivia giunge ad Amburgo sotto falso nome e, fingendosi una turista australiana, chiede di poter incontrare il suo nemico, ormai nuovo console, che accetta di riceverla ma in presenza di alcuni agenti. Ammaliato dalla sua bellezza, però, sceglie di rivederla ancora, questa volta in privato. Sono le 9:40 del 1 aprile, quando la trentaquattrenne tedesca attende Quintanilla nel suo ufficio. Indossa una parrucca e il sorriso più affascinante che possa esibire. All’arrivo dell’uomo, non proferisce parola. Si volta, lo fissa negli occhi, per un attimo la vendetta si fa eleganza, iride azzurra. Tre colpi di pistola irrompono nella storia. La donna scappa, abbandona i capelli finti, la borsetta, la Colt Cobra 38 Special e un pezzo di carta: Vittoria o morte. ELN (Esercito di Liberazione Nazionale). La sua fuga durerà fino al 1973 quando, probabilmente vittima di colui che avrà chiamato zio, Klaus Barbie, cadrà vittima di un’imboscata.
Ernesto Guevara diceva che vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere. Se una rivoluzione è vera, infatti, o si vince o si muore. Senza dubbio, Monika ha lottato. Monika ha vinto.