Nel nostro Paese ci sono due bambini, nati lo stesso anno. Una si chiama Carla e vive a Firenze, l’altro si chiama Fabio e vive a Napoli. Hanno entrambi dieci anni e frequentano la quinta elementare in un istituto della loro città. Alla prima sono state garantite 1226 ore di formazione, al secondo molte meno. È a partire da questa storia che SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) denunciava, due mesi or sono, lo stato dell’arte della scuola italiana. Da allora, altri dati sono stati diffusi e nessun allarme seriamente lanciato.
Poco importa che un bambino del Sud frequenti la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto a un suo coetaneo del Centro-Nord. Poco importa che, di fatto, perda nella sua formazione ben un anno di lezione nelle stesse regioni in cui si registra il più alto tasso di abbandono scolastico del Paese. Gli adulti di domani imparano l’invisibilità sin dall’infanzia e, spesso, è proprio quella che viene loro negata: l’età del sogno, della possibilità, del mondo visto ancora come afferrabile.
In Italia, dove vuotamente si dibatte di merito e mai di meritocrazia, un ragazzo su sei lascia la scuola: al Centro-Nord il tasso di abbandono scolastico è pari al 10,4%, al Centro-Sud al 16,6%, a Napoli si tocca quota 23%. I dati SVIMEZ fotografano un Paese ancora una volta diviso in due, quasi in tre, con disparità che riguardano tutti i servizi, dalle mense alle palestre, al tempo pieno, e il capoluogo campano che si conferma incapace di ascoltare i bisogni, anche didattici, dei più giovani. Dovrebbe togliere il sonno a molti e, invece, è soltanto prassi consolidata. Talvolta, persino avallata.
I servizi socio-educativi destinati all’infanzia sono caratterizzati dall’estrema frammentarietà dell’offerta e da profondi divari territoriali. La chiamano la questione meridionale e indica – come da fonte Treccani – l’insieme dei problemi posti dall’esistenza nel Mezzogiorno d’Italia dal 1861 sino a oggi di un più basso livello di sviluppo economico, di un diverso e più arretrato sistema di relazioni sociali, di un più debole svolgimento di molti e importanti aspetti della vita civile rispetto alle regioni centrosettentrionali. È una questione antica, eppure attuale; spinosa, eppure ignorata. Una questione che non trova posto nemmeno tra i banchi di scuola.
Al Sud, ad esempio, circa 650mila alunni delle primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200mila (87%), in Sicilia 184mila (88%), in Puglia 100mila (65%), in Calabria 60mila (80%). Al Centro-Nord, invece, gli studenti senza mensa sono 700mila, il 46% del totale. Ciò significa che l’accesso al tempo pieno è riservato a pochi – solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno ne può usufruire rispetto al 48% dei colleghi centrosettentrionali – e che questo privilegio può tradursi in due modi: da un lato, almeno uno dei due genitori deve rinunciare al lavoro – di solito la mamma (con conseguenti disoccupazione, discriminazione di genere, impossibilità di emancipazione) – dall’altro, nei casi più particolari, che quel bambino, quel ragazzo, quello studente è abbandonato a se stesso e alle troppe strade che gli si aprono dinanzi senza la capacità di discernere quella giusta.
Sono 83mila, racconta SVIMEZ, i ragazzi che alla chiusura degli scrutini scorsi sono stati bocciati per non aver raggiunto la soglia minima delle presenze. Quest’anno il dato rischia almeno di raddoppiare. Ma chi si preoccupa di loro? E chi si preoccupa di quei tanti, tantissimi, che a scuola non sono nemmeno iscritti? La risposta che viene più spontanea non è così lontana dalla realtà: nessuno. Sono persi, dispersi e invisibili. E se la pandemia ha acuito le discrepanze, ora che lo spacca-Italia di Calderoli diverrà realtà, a molti non resterà niente. Poco più di nulla è, invece, quello che hanno adesso.
Non soltanto mense, infatti: circa 550mila studenti delle primarie del Sud non frequentano istituti dotati di palestra. Registrano i numeri peggiori la Campania (73% del totale), la Sicilia (81%), la Calabria (83%). Un discorso che si mantiene piuttosto invariato anche per chi frequenta la scuola secondaria di secondo grado. E cosa succede quando viene negata la possibilità di fare attività fisica? Danni per la salute, la spesa pubblica e lo stile di vita della popolazione coinvolta.
Al Sud, quasi un minore su tre nella fascia tra i 6 e i 17 anni è in sovrappeso rispetto a un ragazzo su cinque nel Centro-Nord. A questo non può non seguire un dato allarmante sulle aspettative di vita, inferiori di tre anni. Alla base di queste discrepanze vi è, ovviamente, una differenza di spesa pubblica dovuta al progressivo disinvestimento che sta interessato soprattutto le regioni meridionali negli stessi anni in cui si registrano sempre meno nascite. Addirittura, l’ISTAT calcola che nel 2050 gli abitanti dello Stivale potrebbero ridursi fino a cinque milioni, di cui due composti da giovani. Le conseguenze principali, vien da sé, sono l’invecchiamento del Paese, l’impossibilità di un ricambio generazionale necessario e, ovviamente, lo spopolamento di alcune aree, come quelle del Sud, già profondamente segnate dal fenomeno migratorio dovuto a fattori diversi.
È su questa scia – e sul sogno di autonomia differenziata – che vanno analizzati gli accorpamenti che le scuole subiranno dall’anno scolastico 2024/2025. A pagarne lo scotto più alto saranno, ovviamente, gli studenti del Sud, delle famiglie più povere e quelle con background migratorio. Già oggi, nei territori a più alto tasso di povertà educativa, le aree interne e le periferie delle grandi città, l’offerta scolastica è più debole, in un circolo vizioso che si autoalimenta. I diritti fondamentali che dovrebbero essere sempre garantiti, dunque, restano ancora, per la vita quotidiana di milioni di bambini e bambine, solo degli slogan vuoti.
E lo restano, nei fatti, anche quelli dei più adulti che come lavoratori e come singoli individui non solo perderanno il proprio impiego, ma – per chi lo manterrà – dovranno addirittura faticare il doppio perché alla crisi denunciata dall’ISTAT e non solo si risponde, come sempre, con la negazione, con la soluzione più veloce, meno nobilitante e chiaramente – volutamente – distruttiva. Basti pensare che il capitolo di spesa previsto per il triennio 2023/2025 della Legge di Bilancio 2023 prevede un taglio per l’istruzione scolastica pari a 4 miliardi e 116 milioni di euro, passando da una spesa complessiva di 52 miliardi e 114 milioni del 2023 a una spesa di 47 miliardi e 997 milioni di euro del 2025.
Tutto questo mentre 20 milioni verranno stanziati per le istituzioni scolastiche non statali e il Ministero dell’Istruzione e del Merito e i partiti oggi al governo avevano, nel loro programma elettorale, la libertà di scelta educativa delle famiglie attraverso un buono scuola a sostegno proprio degli istituti privati. Tutto secondo i piani.