Una ragazza molto bella è la fedele traduzione di Una muchacha muy bella, titolo del primo romanzo del poeta argentino Julián López, eletto in patria libro dell’anno 2013 e pubblicato poi in Francia, Olanda e Stati Uniti. Tra le mani dei lettori italiani è arrivato il mese scorso, grazie alla curatela di Alessandro Polidoro Editore e al ricercato lavoro di traduzione di Sara Papini, che hanno reso giustizia a una grazia e un’educazione di scrittura da cui è difficile non lasciarsi attraversare.
La copertina del libro mostra un bambino con sua madre, una ragazza molto bella, che aspettano tenendosi la mano; aspettano qualcosa che ha a che fare con i militari sullo sfondo, appartenenti a un’Argentina dittatoriale degli anni Settanta che inghiottiva silentemente giovani uomini e donne passati alla storia come desaparecidos, scomparsi.
Credo che la mia paura più grande fosse che la pioggia inzuppasse mia madre, che la rendesse lacrima: di solito le ragazze molto belle si affliggono terribilmente davanti a un orizzonte scuro.
Julián López presta lo sguardo a un bambino di sette anni, è lui il narratore e protagonista: un piccolo uomo che aveva occhi solo per sua madre e che, osservandola coscienzioso, se ne innamorava ogni giorno. Protagonista è anche questa ragazza imperfetta, incantevole, col suo modo estremamente sensuale di essere per sé stessa e, certo, lì c’ero io con i miei sette anni, quindi anche per me. Senza nome entrambi, sono simboli universali di bellezza, che qui trova nutrimento nel ricordo di una vita a due, in cui ciascuno ha condiviso tutto ciò che aveva: il tempo a disposizione. Due anime distinte che si muovono nella loro privata quotidianità, sul sottofondo di un abbandono risalente a un periodo sconosciuto premesso al racconto, per mano dell’uomo di cui la ragazza era innamorata e che ha lasciato al figlio un’indelebile eredità.
È un bambino che a sette anni incominciava ad accumulare speranze, che avvertiva la responsabilità e la colpa di essere l’unico spettatore di quel fascino solitario, misto a ingenuità e risolutezza. Un ometto che moriva dalla voglia di sedersi a una caffetteria all’angolo di Buenos Aires a leggere il giornale, bere tazze di caffè nero doppio e fumare il pacchetto di 43/70, le stesse di sua madre, ma che, per farla contenta, accennava un sorriso di fronte al grosso ice-cream soda che lei ordinava per lui. Un bambino dalla sensibilità acuta che, a un certo punto, percepiva l’ansia che la mamma tentava di trattenere preannunciando gli inevitabili attimi di solitudine.
E, così, lei si allontanava, per qualche minuto o ora, e lui l’aspettava buono, senza poi farle troppe domande e senza ricevere poi troppe spiegazioni: Quando arrivò mi resi conto di non conoscere la parola per definire quel modo di tornare; non era esattamente sollievo, era un insieme variabile di cose, un fardello rinnovato, una migliore distribuzione del peso che portava […] Forse mia madre era più donna quando tornava […] Vederla tornare era una festa che per qualche ragione facevo in modo di non celebrare […] Non sapevo perché, ma ogni volta, quando vedevo mia madre tornare da una delle sue scappate che me la riportavano così […] mi veniva voglia di non essere suo figlio. Tutto ciò che volevo era scappare da lì, essere grande, accoglierla ammirato e dirle sicuro: hai fatto molta strada ragazza. Un mistero di donna adulta che non lo riguardava ma che, incuriosito, rispettava seriamente, lasciandola libera di essere anche oltre i suoi occhi, perché aveva visto che un leopardo in gabbia è il corpo del nulla.
La trama, intanto, continua a svilupparsi intorno ai due protagonisti, come un nastro di fotogrammi slegati che il narratore rielabora a distanza di anni per avere un film magnifico, una storia da raccontarsi, coinvolgendo il lettore nelle loro intime giornate trascorse a ritrovarsi di ritorno da viaggi mai fatti in Olanda durante la fioritura dei tulipani; nel loro segreto modo di intendersi. Poi una luce abbagliante, la sparizione, dopo la quale nulla ha avuto più bisogno di essere raccontato. Perché nelle pagine esiste solo il tempo condiviso con lei, o quello impiegato ad aspettare che fosse tornata; esiste quasi solo il tempo del ricordo. Per questo, in un dignitoso reclamo d’amore, il bambino cresciuto, finalmente adulto, si mette alla scrivania di fronte alla finestra e la evoca accuratamente, fin dalle primissime parole del romanzo, nella sua sfuggente e totale presenza, descrivendo le dita lunghe, umide e brillanti di quando mondava i piselli, assassina di vegetali, di quando alternava quel compito a un tiro impaurito alla sigaretta.
Osservava il suo modo voluttuoso di spostarsi la folta chioma da una parte all’altra come il drappo sontuoso di un torero; una chioma nera che contrastava perfettamente il bagliore della pelle, il quale la rendeva unica e di un’aristocrazia naturale, lontana da qualsiasi trivialità mondana. Ricorda, ancora, la maniera profonda di esprimersi, senza la presunzione di chi vuole impressionare, le argomentazioni indignate, offensive; ricorda che al volante fosse straordinaria. Si sofferma sulle movenze, sui piccoli particolari, per poi tornare a osservarli di nuovo, qualche riga più tardi, a farne un resoconto, per restituire l’assoluta genuinità di quel corpo materno per sempre giovane, come fosse una Venere dall’eterno candore. Come quelle statue del Giardino Botanico che sperava di riportare in vita con un solo sguardo, che lo scegliessero alla bellezza eterna.
Ignorandone il linguaggio, alla guerra il bambino non fa espliciti rimandi eppure percepiva distrattamente una costante incertezza, che trova una metafora ricorrente nel trapezista, il cui sfavillante spettacolo di scampo al vuoto coincide con la natura itinerante del circo, un flusso che non aspetta nessuno. Anche la salvezza era vagamente percepita, quando le sirene giungevano a notte fonda: «Mamma, tu lo senti il transatlantico?». La politica, come in copertina, è sullo sfondo, giù in strada e al di là di una cornetta telefonica; l’elemento culturale è anche negli indumenti, nei libri, nelle licenze di leggerezza; quello idealista è soltanto nella foto di Che Guevara attaccata con una puntina alla parete rossa del soggiorno. Un genitore, anche il Che, che la ragazza del romanzo, madre e militante rivoluzionaria, chiamava il mio fidanzato e che, secondo Cosimo Damiano Damato, non ha lasciato un segno, ha lasciato un sogno: Sognare un mondo senza ingiustizie è una grande intenzione poetica (dall’introduzione a Luce che accende la tua notte, la raccolta di poesie e scritti del Che indirizzati, tra gli altri, ai suoi figli). E la poesia è il filo che lega il narratore alla sua ragazza molto bella.
La narrazione è riservata, mossa da un linguaggio spontaneo che sembra coltivato nel liquido amniotico della poesia. La scrittura di López è toccante, scalda tutto ciò che nomina e ancora di più tutto ciò che tace, sfiora come le mani di Elvira: accoglienti, delicate. Con un’impressionante padronanza del tempo, quest’accurata letteratura aspetta il suo lettore e rallenta, proprio nei momenti di maggiore bellezza. Un rallentamento che aiuta chi legge a coglierne la coerenza ma che, soprattutto nella parte centrale, funge più da lavoro interiore ed emotivo di un bambino che si prepara a quel non ritorno che si è più volte avvertito nell’aria. Un tenero simbolismo nostalgico si accompagna a una piacevolissima simpatia, geniale nei racconti sulle ingiustizie del mondo dei grandi, sulle banalità di quello dei bambini e sul mondo naturale che era un’esperienza sconcertante. È un libro spassoso e di una commozione intensa perché il sorriso umido affiora sinceramente.
Julián López porta avanti un lavoro lirico che coinvolge ogni sua forma di scrittura; l’autore è tornato recentemente alla poesia pura con Meteoro (meteora, in spagnolo), una raccolta sull’amore e sull’infanzia, quel luogo sacro a cui ritorna il protagonista di Una ragazza molto bella perché esso custodisce la preziosa giovinezza di sua madre; una giovinezza femminile alla quale ha urgenza di avvicinarsi per respirare. Una giovinezza e un’infanzia che sono qui fenomeno troppo fugace e abbagliante, proprio come la meteora. A permanere è la sua eredità, assorbita nel corpo di un figlio che si rende conto che tutto ciò che è non può che incominciare da lei: dalla lettura ritrovata alla pratica del tè, entrambe discipline astringenti se si considera la prima come esercizio di smemoramento di tutto ciò che si è appena letto, e la seconda per la quale ogni sorso astringe quello precedente ed è definitivo. Definitivo, al contrario della sopravvivenza:
Non posso essere sopravvissuto a quella ragazza bella e sapere tutto quello che non so.
Non posso essere il figlio di quella donna più giovane di me davanti a quell’abisso.