Se ci suona piuttosto scadente leggere di amministratori locali che intendono intitolare strade e luoghi pubblici a icone fasciste, diventa altrettanto complicato immaginare la stessa piazza dedicata contemporaneamente a un fascista e a un comunista. Per trovare proposte di questo tipo non abbiamo bisogno di recarci in luoghi lontani che magari non hanno mai conosciuto direttamente le due fasi storico-politiche in questione, tutt’altro: ci basta recarci nella vicina Terracina, dove l’idea dell’estate è stata quella di intestare una piazza a due personalità che hanno rappresentato in pieno gli opposti schieramenti, Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante.
Entrambi costituiscono figure che si sono sempre contrapposte nella seconda metà del Novecento e sono senza dubbio interpreti dell’evoluzione delle rispettive fazioni: l’ex segretario del Partito Comunista Italiano rispecchia una visione moderna del comunismo basata sul dialogo e non sempre conciliante con le posizioni dell’Unione Sovietica; l’altro, invece, è colui il quale ha cercato di dare un’impronta diversa al suo Movimento Sociale Italiano, cercando di sradicarlo dalle vecchie posizioni estremiste. Un percorso, terminato poi con Alleanza Nazionale e con la svolta di Fiuggi voluta da Giancarlo Fini, che ha tuttavia una non indifferente pecca iniziale: Giorgio Almirante è stato a lungo un convintissimo fedele al regime nero e il partito di cui faceva parte era nato proprio in ossequio al pensiero mussoliniano, anche se leggermente velato.
Va comunque sottolineato che i due politici sono sempre stati dei rispettosi avversari al punto tale che, come ricordato più volte dalla famiglia Berlinguer, al funerale del leader del PCI era presente anche il suo principale nemico. Un gesto importante che dimostra come il rispetto e la riconoscenza nei confronti della maestosità di un personaggio possano andare al di là delle fazioni e che, soprattutto, rappresenta l’autenticità di una sfida che si basava su un credo vero nelle idee che si tentava di portare avanti. È proprio questa vastissima diversità di visione, tuttavia, che rende inconcepibile pensare di dedicare a entrambi uno stesso spazio: intitolare un qualsiasi luogo a un fatto come a una persona vuol dire che quel luogo deve ricordare un personaggio, un ideale, un momento specifico e dargli risonanza. Insomma, deve raccontare una storia chiara e inequivocabile. Speriamo dunque di essere compresi se diciamo che quella di Almirante è stata tutto tranne che una storia chiara.
Già, perché, come accennavamo in apertura, il politico in questione non ha mai mostrato vergogna per essere appartenuto al ventennio peggiore che la storia italiana ricordi e per aver preso parte alla Repubblica di Salò. Parliamo, infatti, della stessa persona che negli anni Quaranta del secolo scorso affermava che il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli […]. Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali.
Naturalmente nulla vieta di obiettare che tanti orgogliosamente fedeli al Duce siano poi stati inglobati nelle strutture dell’Italia repubblicana e si può anche dire che lo stesso Almirante abbia intrapreso un percorso verso quelle che sono oggi le istituzioni italiane, ma questo non è certamente sufficiente per redimerlo e per cancellare le parole dette e le posizioni sostenute: parole e posizioni che contrastano sia con lo spirito costituzionale sia con la consapevolezza dello squallore di quel passato lì. E, se davvero con quel periodo storico abbiamo chiuso i conti, se davvero siamo convinti del fatto che fascismo e comunismo non siano la stessa cosa, allora non possiamo permetterci di vedere nelle nostre strade i nomi di chi raffigura il male storico del Paese.
Il problema è che questa proposta, votata in modo favorevole da 12 consiglieri di maggioranza del Comune laziale, rappresenta la tipica propensione all’equidistanza, che altro non è se non una forma di equivicinanza: cercare di mostrarsi ugualmente lontani da due posizioni finendo in realtà con il sembrare vicini a entrambe. D’altronde, a un’operazione molto simile abbiamo assistito anche a fine settembre scorso, quando il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione che equipara il comunismo al nazifascismo. Non è mai troppo tardi, però, per affermare la diversità che c’è tra un regime totalitario basato sul razzismo, sulla divisione, sull’odio verso lo straniero e un’ideologia, quale quella comunista, che era stata pensata in maniera diversa rispetto all’uso distorto che ne è stato fatto, ad esempio, nell’Unione Sovietica.
Basti pensare che il PCI è stato quello dei vari Berlinguer, Iotti, Ingrao, cioè di gente che nella propria carriera politica si è realmente battuta per la difesa degli ultimi, gente che non ha nulla a che vedere con i gulag e con i morti causati dalla dittatura staliniana. Il fascismo, invece – quello sì – lo conosciamo bene e chi ha qualche anno in più lo ha visto con i propri occhi: dargli visibilità, anche tramite la dedica di strade, vorrebbe dire non conoscere o, peggio ancora, non riconoscere le atrocità commesse. In questo modo, l’unico risultato che si ottiene è quello di mescolare e confondere i fatti e le persone quando, in realtà, è giunto il momento di chiamare le cose con il loro nome.