«Sta nascendo!» gridava un ragazzo all’ingresso del vicolo. Quell’allegria rimbalzava urgente sui muri delle case. Prima che si perdesse tra le ombre della sera, un’altra voce, una donna, riprendeva l’annuncio: «Sta nascendo? E tu come lo sai?».
Tutti sapevano. Persino gli animali degli ovili e dei cortili che si agitavano affollandosi alle reti, quelli delle tane e delle grondaie, meno utili e per questo più spaventati, quelli volatili e quelli striscianti, gli animali liberi o alla catena, le prede e i predatori. Persino gli alberi e le erbe: una scossa di brivido scuoteva le fronde, e non soffiava il vento. Ogni creatura, anche le pietre, sembrava in attesa dell’evento, e i mattoni per l’eccitazione aprivano crepe sulle pareti per sfuggire alle malte. Avvertivano quanto fosse incontrollabile e necessaria quella novità.
Tutti erano in attesa. Dalla stalla, lontana nella campagna, la notizia si spingeva di voce in voce, di bocca in bocca, di trepidazione in trepidazione, sino al cuore di Betlemme. Profeti, indovini, veggenti. Con largo anticipo avevano previsto il rifiuto di un alloggio per quella coppia di nazareni – sembravano i soliti profughi per fame e per guerra – così malamente assortita: lei bambina e partoriente; lui maturo e falegname.
Molti nascevano malati, altri morivano giovani, di violenza e di affanni. Ma tutti, da tempo, erano stati avvertiti del clamore di quella Nascita leggendaria che li avrebbe guariti, spezzando il tempo degli umili e degli ultimi con la promessa inattendibile che è per loro il regno dei cieli. Anche per tutti gli altri. Ma i più sfortunati sarebbero entrati per primi, lasciando sulla terra il carico del loro dolore.
Tutti volevano partecipare. Lasciarono le ultime case prima degli ulivi, poi furono accolti dal buio. Grandi e bambini, uomini e donne, i pochi ricchi travestiti da poveri e i poveri con le loro tuniche più belle: seguivano la cometa bruciare nel cielo della Palestina, quando ancora non era la mano dell’uomo a squarciare la quiete della terra di Dio. Cercavano la capanna dove già tanta passione di animale si era consumata, dove quel bambino di liquirizia appena falciata, di terra umida scaldata dal sole, di alloro e salvia stava emettendo il suo primo vagito.
Tutti portavano un regalo. E per chi nel clamore di quella notte aveva dimenticato di prenderne uno, lungo i sentieri ambulanti carichi di mercanzia tentavano di svuotare le botteghe della merce invenduta a suon di affari. Il Re dei re che tante profezie avevano narrato era finalmente tra loro. Li avrebbe salvati. Li avrebbe liberati. Era una promessa di pioggia nella siccità.
La nascita che attendevano era quella di un bambino redentore, ma il nome di Gesù, tra le pagine di Una notte di Giosuè Calaciura (Sellerio), non compare mai. Non compare Gesù e non si racconta Cristo, ma tutto ciò che intorno si muove e partecipa all’eccitazione del primo Natale, quando le travi dell’universo scricchiolano nella paura crescente dei potenti e dei prepotenti.
I subalterni, i minimi, i piccolini si affacciano sul palco della Storia e se ne appropriano. Il bambino buono, il pescatore, il soldato, la sterile, il bue, il pastore, lo scemo, l’immacolata, i magi, l’uomo cattivo. Dieci capitoli per dieci racconti, piccole storie di una più grande, microcosmi a sé stanti che finiscono con il trovarsi, talvolta a scontrarsi, nell’universo racchiuso in una notte che è pellegrinaggio, attesa e speranza: sono soli, sono monchi, non hanno ricchezza o sentimento, infanzia o futuro. Questa notte, però, è la loro rivincita. La rivincita degli ultimi.
Ed è agli ultimi, sempre, che Giosuè Calaciura dona tutto il suo amore, la capacità di guardare al mondo e all’altro con cura e devozione nel disincanto di chi non crede al miracolo, ma lo cerca comunque. E lo cerca, cometa, nella dedizione di un bambino che si perse la Nascita per dare da bere all’assetato, voce al muto, orecchie al sordo, occhi al cieco, gambe al paralitico. Era un bambino buono. E continuò a rispondere a ogni richiesta di soccorso, a ogni richiamo urgente che in quella notte fatidica gli sembrò si moltiplicasse per rendergli difficile, impossibile, l’approdo alla stalla.
Lo cerca, Calaciura, nei tagli delle mani di un giovane pescatore. Nella pesca miracolosa e a tempo – perché nessuna meraviglia è destinata a durare – che riempiva le ceste di pesci immortali, capaci di rigenerarsi e, ancora, per sfamare la verità della miseria che, soli, gli uomini che erano rimasti aggrappati a quell’enorme catino d’acqua e sudore sfidavano per ritardare il ritorno in famiglia, l’ammissione di una colpa non loro.
Resistevano ancora perché il lago, come un cimitero, ospitava i morti di ciascuno, gli affogati nelle notti di tempesta che infuriano inattese e improvvise, senza alcun segno premonitore, quando l’acqua ribolle e le onde s’incrociano senza logica né direzione rendendo impraticabile ogni ipotesi di navigazione e di soccorso. Pescatori perduti e insepolti. Anche suo padre dormiva nell’acqua.
Nemmeno stavolta, la bellezza della scrittura di Giosuè Calaciura riesce a prendersi una pausa dalla stortura del quotidiano. I tagli nelle mani, gli occhi di un pescatore vinto, il corpo di uno e più uomini che si perdono sul fondo. Una notte, la magia della narrazione trasforma la disgrazia in fortuna, la morte in vita; un’altra, l’odio che gorgoglia, l’indifferenza che si fa arroganza e mitomania, restituiscono legno scheggiato, corpi, vestiti e scarpette di passi spezzati ancor prima di essere compiuti.
È una storia commovente e dolce quella del pescatore, una carezza che si riverbera, poi, nelle pagine successive, nel soldato di Erode che aspetta un figlio ma deve firmarne la condanna. Nella paura che abbraccia il lettore nel suo rientro a casa, quando la stanza è vuota e macchie di sangue sporcano il letto. Di malinconica bellezza sono, poi, le pagine dedicate al bue, l’ultimo tra gli ultimi, vecchio e stanco, solo e innocente, sacrificato ancor prima di venire al mondo. Come se fosse questo il destino degli animali quando incontrano l’uomo, quando gli hanno dato tutto e il sapore di ruggine è tutto quanto resta loro.
Nessuno vuole nascere per vivere il martirio certo della vita e la passione indicibile della morte, scrive Calaciura. Nella storia del bue, nella storia di ogni protagonista di una notte attesa e immaginata ci sono entrambi, martirio e passione, vita e morte, figlio e madre, gli uni così inestricabilmente legati agli altri.
Tanti sono i personaggi che costellano la narrazione, altrettanti quelli che rimandano ad altre storie nel ribaltamento del più tradizionale racconto evangelico. È il primo e tutti i Natali a venire, la Nascita che si manifesta in una notte che potrebbe essere molte notti. Quelle in cui il mondo fa i conti con se stesso, il bambino buono diventa l’uomo cattivo; la sterile si innamora di un pescatore inesperto; la levatrice sulle cui tracce si muove il soldato mentre partecipa al miracolo; l’immacolata che teme un tumore e, invece, è soltanto incinta; lo scemo, il vecchio e il ragazzo, ladri di doni, magi per sempre.
È la notte del Bambino e di tutti i bambini che si incontrano e si scambiano nelle braccia di madri inesperte, di profumi di pelle e latte che si mischiano e confondono, di braccia che si incrociano nel cerchio di una vita che non si riconosce più: chi è Lui, chi sono gli altri. Lo avevano atteso tanto ma, forse, era solo un bambino.
Solo. Come lo sciancato, il pargoletto buono diventato l’uomo cattivo, lui complice e mandante di Barabba che, nell’attesa degli inseguitori, sentì il vagito della Nascita che aveva perduto tanti anni prima. Veniva dalla collina con le tre croci e s’intonava confondendosi al piagnucolio del suo terrore. Ma non era il pianto di chi nasce. Era il soffio dell’agonia di chi muore nell’ultimo lamento. Quello che, ancora, non dovrebbe lasciarci pace.