Mio caro amico, vi mando una piccola opera di cui non si potrebbe dire, senza ingiustizia, che non ha né capo né coda: poiché, al contrario, tutto vi è al tempo stesso capo e coda, alternativamente e reciprocamente. Ad Arsène Houssaye è inviata in confidenza l’opera di cui si parla, Lo Spleen di Parigi, con la quale il poeta Charles Baudelaire ha voluto sperimentare un linguaggio che tentasse di rincorrere le contraddizioni di una ingannevole vita moderna, così moderna da essere inafferrabile. I cinquanta poemetti in prosa di cui si compone l’opera (scritti fra il 1855 e il 1864), si presentano al lettore come una serie di polaroid, istantanee complesse che restituiscono, in una sola immagine, lo smarrimento profondo di un poeta che vaga per la sua grande Parigi di pietra.
Possiamo interrompere dove ci va – io la mia fantasticheria, voi il manoscritto, il lettore la sua lettura. […] Togliete una vertebra, e i due tronconi di questa fantasia tortuosa si riuniranno senza sforzo. Svertebratela in molteplici frammenti, e vedrete che ognuno di loro può stare da solo. La nuova prosa è in grado di fotografare i passages parigini tenendo insieme i singoli quadri del volume, slegati e poi riallacciati, dal poeta maledetto, negli eroici temi del Vino e della Morte, dell’abisso della Notte, della generosità della Luna, della perdita d’Aureola e della Solitudine con i suoi molti volti.
Il poemetto numero tre ne è un assaggio completo, squisito e terribile, un concentrato di simboli poetici dall’estetica inconfondibilmente baudelairiana. Ne Il confiteor dell’artista, infatti, appare un uomo che vaga, il flâneur, l’uomo romantico che sente fin nelle ossa penetrare le fini dei giorni d’autunno. La sensazione è indistinta ma intensa, è come lama dell’Infinito; è proprio nel bel mezzo di questo infinito, però, che una minuscola vela brividente, piantata lì sull’orizzonte del mare, sembra imitare la solitudine, la piccolezza e la monotonia della vita di quell’uomo romantico che è l’artista, il quale finisce per pensare attraverso tutte le cose che lo circondano, in una connessione antica come il sogno ma così fragile che può svanire in un soffio.
Ecco che quegli stessi pensieri si fanno troppo intensi per essere sopportati da nervi fragili, che si fanno a loro volta troppo irti, fino a farlo ammalare di una reale sofferenza. Il cielo per lui è ora troppo profondo, troppo limpido, il mare è insensibile e così eterno che l’artista, di fronte a quella vista pungente, si chiede se soffrire, o anche sfuggire al bello, è un processo che dovrà svolgersi eternamente. È quello che Giuseppe Montesano, traduttore e studioso appassionato di Baudelaire, identifica come un colpo – riferendosi ad altri componimenti della stessa raccolta – quello che irrompe (stavolta senza suoni apparenti) nella reale faccia del presente, quella che la sensibilità dell’artista tenta di trasformare in un sogno, servendosi sempre di quella fantasticheria, la rêverie, che altri non è che un abbandono più o meno incontrollato al fantasticare della mente.
Si fantastica per fuggire dal moderno che morde, ma è la stessa sensibilità dell’artista a strappare poi questo velo poggiato precariamente sul reale e a far spazio a tutta la pesantezza di una vita ormai insopportabile. A questo contraccolpo Baudelaire sarà sempre legato, letteralmente lacerato dalla stessa irriducibile dialettica da lui instaurata, prigioniero di antinomie irrisolvibili: e un altro colpo, uno choc, lo immetterà proprio nel colmo della sua frattura (Montesano). Così la spiritualità da anima bella romantica è proprio la trappola rivelatrice del volto ambiguo del caos. In questo conflitto inesauribile tra il troppo e il vuoto, tra il bello e l’osceno, nessuna parola sublime è esprimibile se non a patto di sentir risuonare in sottofondo la sua stessa confutazione, […] la vicinanza della distruzione di ogni bellezza.
È il bello, promessa di felicità, che il poeta ricerca quando vagabonda per le labirintiche pietrificazioni della sua città, una città che condensa gelosamente quella bellezza assolutamente moderna, bella proprio perché relativa, sfuggente, caduca: la maschera di questa bellezza in Baudelaire è la moda, una maschera che non si può strappare senza strappar via anche il volto. Una maschera che guarda oltre, un po’ avanti, un po’ indietro; che non si ferma sul presente, perché lo sguardo nella città moderna non ha la possibilità di una contemplazione assoluta e perciò tutto quello che è visto si approssima, anche molto velocemente, e con una sorta di rassegnazione, alla morte, alla fine di ogni cosa.
In questo mondo si salva – anche se solo in teoria – chi riesce a evadere dalla natura per approdare all’artificio, perché la natura è considerata maestra di abominazioni e crimini. Ed è proprio alla Natura che si rivolge Baudelaire sul finire del poemetto in prosa numero tre, all’impietosa incantatrice, rivale sempre vittoriosa, alla quale implora la liberazione, perché essa è pericolosa tentatrice dei desideri più profondi. In questo mondo, si salva dunque solo il dandy, o almeno è quello il suo intento iniziale, un Ercole senza impiego che non vuole essere utile a nessuno, che insegue la bellezza nella sua veste moderna, restando ai margini di una società che produce e che fa esaurire in un attimo tutto ciò che crea. Si cerca incessantemente una nuova forma di bellezza di fronte alla desolazione della caducità, ma lo studio della bellezza è un duello in cui l’artista grida di terrore prima di essere vinto.
Da cosa è vinto l’artista che studia bellezza? Da cosa sta fuggendo rischiando di restare per sempre intrappolato nella sua stessa fuga? Che cosa rincorre senza essere soddisfatto mai, senza riuscire a toccare mai con mano il tanto atteso premio oltre il tanto provato strazio? È la Modernità che governa, che gestisce quegli interruttori che regolano le velocità di spazio e di tempo – le quali si sovrappongono l’un l’altra fino ad annullarsi per poi aprirsi nuovamente verso l’orizzonte, in un’infida giostra della vita – mentre gli uomini romantici, gli ultimi sensibili, sono solo anime che talvolta trasmigrano dal corpo travolto, per poter restituire la fotografia dell’attimo di un Tempo che non si lascia prendere, così come il suo successivo, quasi come l’attimo precedente.
La fotografia, una delle nuove muse secondo Walter Benjamin, altra sublime forma di adattamento ai cambiamenti della vita moderna, sembra condividere proprio con il flâneur, specificatamente nel suo obiettivo fotografico, lo stesso sguardo distratto, disincantato, curioso e, al contempo, nostalgico dell’istante. In questa corsa contro il tempo (passato o futuro che sia) e verso uno spazio altro (che si spera sia più quieto) in cui Baudelaire ci accompagna con cura e poi ci strattona fino ai meandri oscuri e meravigliosi in cui è capace di spingersi chi pratica la rêverie ’ qui ne Lo Spleen di Parigi come in tutte le sue opere – la fotografia pare voler reggere la sfida dell’oblio, lanciata dalla stessa modernità.
E Baudelaire (riluttante a quel mezzo generato dal mostruoso moderno), che si lascia fotografare da Nadar mostrando all’obiettivo un riso che non riesce ad esprimersi se non in una smorfia, come esplosione perpetua della sua collera e della sua sofferenza, è la prova che l’ironia, espressa, appunto, in un riso soffocato – come risposta allo Spleen e alle sue contraddizioni – può essere catturata proprio da quel frutto del progresso tecnico e corrotto (quale la fotografia), che per il poeta francese può fungere soltanto da ancella delle scienze e delle arti. Un rifiuto, il suo, che quasi svela una sorta di comunione tra due entità che si scontrano senza nemmeno sfiorarsi: suo figlio, il flâneur (come simbolo di cui è il creatore), e la fotografia, figlia del mondo moderno.
Ma cos’è questo Spleen? Questa noia esistenziale che nasce simbolicamente intorno a Baudelaire, nei dintorni di Parigi, ma che è traducibile in tutte le lingue e in tutte le malinconie?