Lunedì scorso, in seguito alle votazioni per le Amministrative tenutesi in molte città italiane, mi sono imbattuta in una testimonianza che mi ha lasciato di stucco. Su un noto profilo che si occupa di dare visibilità alle ingiustizie perpetrate da media e istituzioni nei confronti delle donne, è stata pubblicata l’esperienza di una donna che, al momento del voto, ha notato che sul registro elettorale il proprio nome era seguito dal cognome di suo marito. La testimone, che non aveva mai preso il nome del coniuge e che possiede documenti contenenti esclusivamente il proprio cognome, non si aspettava minimamente che da qualche parte, nei meandri della burocrazia italiana, qualcuno l’avesse registrata in un modo diverso, affibbiandole un’identità che non credeva di avere.
Leggendo la testimonianza, io stessa mi sono risentita, convinta però che si trattasse di un errore e non della prassi. È bastata qualche ora perché fioccassero testimonianze di altre donne sposate che hanno confermato questa convenzione, che non accade per errore ma è così per legge. Anche le donne che non prendono il cognome del marito né lo aggiungono al proprio, anche quelle sui cui documenti non appare certamente il nome di qualcun altro, da qualche parte sono amministrativamente identificate come moglie di.
A quanto pare, tale questione è prevista nell’articolo 143 bis del Codice Civile. Che qualcosa di tanto esplicitamente impari sia contenuto all’interno della legge è decisamente inaccettabile. Eppure, la questione è così ben sotterrata da altre norme e convenzioni, che è davvero difficile accorgersi che la legge preveda l’esistenza di una norma vagamente anticostituzionale. Infatti, esistono delle leggi speciali in campo amministrativo che danno valore giuridico solo al cognome anagrafico, motivo per cui sui documenti e nelle questioni ordinarie questo piccolo difetto del sistema non viene notato. Però, l’imputato articolo 143 bis non è mai stato del tutto abrogato e questi errori saltano fuori di tanto in tanto in alcuni contesti burocratici, come il registro elettorale oppure alcune pratiche dell’INPS.
Può sembrare una questione di poco conto, che non scalfisce la vita quotidiana delle donne sposate che continuano a conservare la propria individualità, ma in realtà non è affatto così. Che la legge preveda l’esistenza di una chiara e inequivocabile imparità tra marito e moglie, anche se solo a livello strettamente formale e mai pratico, è molto più grave di quanto sembri. E la formulazione dell’articolo rende tutto ancora più chiaro.
L’articolo del Codice Civile è dedicato ai diritti e doveri reciproci tra i coniugi. Il 143 bis, inerente all’attribuzione del cognome, dunque, non è solo una sciocchezza formale facilmente aggirabile con le leggi speciali, ma un vero e proprio dovere che la normativa impone alle mogli. L’articolo recita, infatti, che la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze. Poi, in un azzardato tentativo di alleviarne la gravità, una nota posta accanto a cognome del marito recita: In aderenza al principio di parità tra marito e moglie, è consentito alla donna – limitatamente ai rapporti professionali – derogare a tale dovere, mantenendo solo il proprio cognome da nubile. Quindi, nel tentativo di concedere una deroga che in qualche modo rispetti l’individualità delle donne, l’articolo stesso dichiara che si tratta di un vero e proprio obbligo unidirezionale che le mogli hanno nei confronti dei propri mariti. Insomma, a quanto pare, i doveri coniugali vanno dalla fedeltà alla coabitazione, fino ad arrivare all’annullamento dell’identità personale.
Non credo sia necessario spiegare perché tutto ciò non solo è sbagliato, ma è gravissimo. Non credo sia necessario sottolineare che finché si parla tanto di cambiamenti culturali, di interventi sui comportamenti discriminatori e sessisti della società malata, ma si consente che le norme in qualche modo ne giustifichino l’esistenza, tutto ciò che possiamo fare per provare a raggiungere la parità è inutile. Perché agli occhi della legge c’è ancora chiaramente una differenza. Ma la questione non si ferma qui, perché non si tratta solo di ingiustizia, ma di un evidente contrasto con ciò che è espresso dalla nostra Costituzione in fatto di uguaglianza, parità e sviluppo della persona. Di individualità e di valore dell’identità del singolo indipendentemente da quale sia il suo sesso biologico.
Nel 2006 – e anche molte altre volte prima di allora – la Corte di Cassazione ha provato a sollevare la questione di incompatibilità di fronte alla Corte Costituzionale. In particolare, il 143 bis del Codice Civile è stato considerato in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge poiché quanto espresso sul rapporto tra i coniugi viola il principio fondamentale di uguaglianza e pari dignità. La questione a cui la Corte di Cassazione si appellava riguardava l’attribuzione del cognome paterno ai figli, irrimediabilmente collegata anche al rapporto tra coniugi, che dovrebbe essere pari e che, per questi e per altri motivi, è reso impari dalla legge stessa.
La Corte Costituzionale ha poi, in quella stessa sede, riconosciuto la legittimità della questione sollevata dalla Cassazione, eppure nella sentenza 61 del 2006 ha stabilito che non è compito suo quanto del legislatore modificare tali norme in base alla sensibilità dei tempi e della collettività. Insomma, anche se l’attribuzione automatica del cognome del marito a ogni donna sposata contrasta i principi di uguaglianza e di pari dignità sanciti dalla Costituzione, la Corte non se ne è assunta la responsabilità e ha rimandato alla politica una decisione che non si prenderà mai la briga di considerare.
A pensarci bene, niente di tutto ciò dovrebbe sorprendere. Dopotutto, il valore delle persone, in Italia, è ancora strettamente legato allo stato civile. Vero è che il nostro Paese è fondato sul concetto di famiglia, che essa è il nucleo intorno al quale si sviluppa la nostra società. Ma è anche vero che ormai la famiglia ha assunto connotati molto diversi da quelli espressi dallo stato civile. Coppie non sposate, coppie separate, coppie che non possono sposarsi perché formate da membri della comunità LGBTQ+ e che – e questo è inaccettabile – non hanno ancora accesso al matrimonio egualitario. Insomma, lo stato civile scritto anche sui documenti non dice davvero nulla dell’individuo. Ma – e questo è un retaggio quasi preistorico – dice molto delle donne per le quali esprime il valore.
Forse pensate che non sia così, che non è più come una volta, quando una donna sposata era una brava donna, rispettata ma solo perché apparteneva a qualcuno, e invece una donna non sposata doveva assolutamente sistemarsi per iniziare ad avere un ruolo nella società. Ma io mi chiedo perché, allora, quando devo registrare il mio nome da qualche parte, magari per prenotare un biglietto, mi viene chiesto se sono Signora o Signorina. Se un genitore prenota un volo per il proprio figlio di tre anni, lo registrerà con l’appellativo di Signor, e ne sorriderà anche magari, pensando che qualcuno chiami signore un bambino. Ma se io, donna adulta, prenoto il mio volo, devo dare spiegazioni sul mio stato civile. E magari, da nubile, agli occhi dello Stato appaio automaticamente insignificante, ma almeno libera.
Possono sembrare piccolezze, o retaggi di un passato superato che non crea poi così tanti problemi, ma non è così. Perché se è l’istituzionalità stessa delle cose a decidere che il valore di una donna è strettamente legato al suo stato civile, come possiamo aspettarci che la società, figlia di questo sistema ancora malato, non sia malata a sua volta e non discrimini, escluda o uccida le donne? E se una donna sposata, agli occhi burocratici dello Stato, è identificata con il cognome di suo marito, e per gli uomini lo stesso non accade, significa che l’identità di quell’individuo è messa in secondo piano rispetto a quella dell’altro, che eredita suo malgrado, che le si appiccica addosso e non può farci nulla.
Ora, che il matrimonio sia un’istituzione nata principalmente per controllare le donne è chiaro a tutti, ma il fatto che sia nato per uno scopo preciso non significa che adesso non possa evolvere all’interno della società moderna. Oggi ci si può voler sposare per comodità legale, perché una coppia non sposata ha di fatto molti meno diritti di una coppia sposata – si veda, per esempio, la questione tra unioni civili e matrimonio egualitario – oppure ci si può voler sposare per puro romanticismo, oppure per un’incredibile quantità di ragioni che non vanno mai giudicate. Tuttavia, ciò non dovrebbe comportare una rinuncia delle libertà o del valore delle persone che decidono di fare questo passo puramente istituzionale. Non dovrebbe, ma è così. O meglio, per un uomo che decide di sposarsi in realtà è vero, niente cambia del suo valore o della sua identità. Ma per una donna non vale lo stesso. Perché, sebbene nella pratica degli atti non sembri, sotto sotto, nell’ufficialità delle cose, ella quando si sposa sta un po’ rinunciando alla sua individualità. Ed è inaccettabile.