Contributo a cura di Samantha O. Storchi.
Samuel Beckett: un uomo strano, dallo sguardo un po’ folle, dal comportamento fuori dal comune, dai silenzi carichi di messaggi oracolari non detti e sempre rimandati.
I miti sulla personalità degli artisti, come tutti i miti, sono duri a morire, addirittura indistruttibili. In Samuel Beckett c’è chi ha sempre visto – e chi vede ancora – qualcosa di misterioso e di oscuro. Se si pensa alle opere teatrali poi, l’immagine dell’artista si complica ancora di più: i suoi testi, infatti, sono atti d’accusa contro le inadempienze e i limiti della cultura. L’immagine di un Beckett glossatore, ermeneuta e critico desta per questi motivi sconcerto in molti, ma la leggenda che si è creata intorno alla figura dell’artista risulta piuttosto fuori luogo.
Samuel Beckett – inquietante negatore della parola e della comunicazione – è, all’età di soli venticinque anni, autore di un saggio su Marcel Proust che colpisce per lo straordinario acume filosofico. Non si tratta di una semplice monografia, bensì di un incontro tra due scrittori, laddove Beckett coglie la vera grandezza della Recherche. Proust, infatti, è un saggio inatteso, una scelta imprevedibile che lascia molti interpreti dell’autore stesso piuttosto sconcertati. Tuttavia, il drammaturgo irlandese non vuole fare del suo lavoro un ritratto ad uso accademico. Più che un saggio di critica letteraria sul grande scrittore francese, infatti, esso appare come uno studio contenente tutte le riflessioni filosofiche da cui Beckett attinge, poi, per la stesura delle sue opere future.
Ma come può un autore come Beckett, così scabro, in un età così giovane, approcciarsi allo stile della Recherche? Al contrario di quanto si possa credere, l’affinità tra i due scrittori risulta sorprendente. Per comprenderla, dunque, bisogna partire da una domanda: perché Beckett sceglie Proust? Questo quesito ancora oggi mette in crisi alcuni valenti studiosi e una delle ragioni del disagio è connessa con l’immagine errata che si ha del capolavoro proustiano.
Per quanto possa apparire paradossale e incredibile, le recenti esegesi non hanno ancora cancellato definitivamente un certo tipo di lettura dell’opera. Si pensa ancora, infatti, che La ricerca del tempo perduto non sia altro che la ricostruzione di un giovane malato e infelice che, per reagire alle angosce del proprio presente, ha voluto rievocare il proprio passato, consolandosi con i ricordi infantili e adolescenziali dei baci materni, del dolce volto della nonna, delle serate mondane presso i Guermantes. E allora come si fa ad accostare il tragico Beckett al dolce fanciullo della Recherche? È chiaro che se si accetta questa definizione di Proust il rapporto con l’irlandese diventa incomprensibile. La caratterizzazione è ovviamente falsa e, per accorgersi dell’errore, basta leggere con un minimo di lucidità le oltre duemila pagine, senza fermarsi al bacio e alla madeleine, alla zia Léonie e alla cuoca Françoise. Proust stesso parla molto chiaramente a tal riguardo: il suo non è altro che un viaggio filosofico-esistenziale alla ricerca della verità che, lungi dal tendere alla ricomposizione del passato, alla fine, arriva persino a disordinarlo. L’autore della Recherche, da un lato, intende studiare le sorprendenti potenzialità delle impressioni e delle percezioni sensibili, dall’altro, vuole interrogare determinate esperienze che hanno la sconcertante caratteristica di risultare importanti per la carica di messaggi, emozioni e risonanze che contengono. Tuttavia, si rende conto ben presto che queste esperienze non sono possibili e non sono identificabili mediante i consueti dispositivi dell’intelletto – tramite cioè la memoria volontaria – e si affida a quella involontaria.
Samuel Beckett è la persona più adatta a comprendere l’essenza dell’opera proustiana, probabilmente per una sorta di contiguità e di affinità spirituale. Al tempo in cui Beckett scrive è già in atto il grande equivoco che trasformerà il capolavoro proustiano in una specie di prezioso scrigno per signore della buona società che vogliono ritrovare i sani sapori di una volta e commuoversi sui giorni felici dell’infanzia. È già in voga, inoltre, la moda di scrivere mémoires simili a quelle proustiane. Beckett si concentra sul vero spirito del romanzo, quello malvagio e nichilista, che non offre nessun salvagente all’uomo che sta affogando. Il drammaturgo presta un servizio mirabile alla causa proustiana, rendendo intimi e pregnanti alcuni temi da lui condivisi con Proust: la concezione dell’amore, dell’amicizia e dei rapporti umani in generale.
Marcel Proust è un uomo che non crede nella comunicazione tra gli esseri, un individuo che si sente immerso in un mare di egoismo e che vive i rapporti umani come uno sconfortante succedersi di fraintendimenti. I sentimenti più frequenti e più celebrati altro non contengono, sotto ingannevoli parvenze, che pregiudizio e orgoglio. Ogni tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, produce solo delusione. È vero, senza ombra di dubbio, che qualunque gesto comunica qualcosa, ma tutto ciò che degli altri può essere detto, osservato, esperito o analizzato – per Proust come per Beckett – non dischiude mai nulla. I rapporti intersoggettivi si basano sull’incomunicabilità tra soggetti. Beckett fa sua questa visione proustiana.
Se l’amicizia è una funzione della codardia dell’essere umano, l’amore è “una funzione della tristezza dell’uomo”, è esibizione di altruismo e affermazione dell’ego, utopia del possesso e impossibilità del possesso stesso. È, ancora, una promessa di felicità che produce gelosia, tormento e crudeltà. Proust scrive: “Si ama solo ciò che non si possiede, si ama soltanto ciò in cui si persegue l’irraggiungibile” e insiste, quindi, sul fatto che l’amore può solamente coesistere con uno stato di insoddisfazione. Il suo inizio e la sua continuazione implicano, infatti, la coscienza della mancanza di qualcosa.
L’autore della Recherche non costruisce – e non potrebbe costruire – un universo mitico, né un sistema di valori alternativi e ora appare chiaro che quasi nessuno, prima di Samuel Beckett, abbia colto il significato nascosto dell’opera. Proust non vuole fare altro che sottrarsi alla seduzione dell’apparenza, scorgere il vero – e il vuoto che si porta con sé – sotto la sua rassicurante razionalità di superficie. Dunque, se questo è Proust, il rapporto con Beckett viene subito ad assumere una nuova plausibilità. L’incontro tra i due scrittori non si presenta più come lo scontro tra due universi situati agli antipodi, piuttosto come uno scambio di affinità implicita, ma non per questo meno evidente: la comune concezione negativa dell’uomo e del mondo, la comune persuasione che questo negativo sia celato sotto forme ingannevolmente positive che lo aggravano e, soprattutto, la comune volontà di smascherarle.