Il 20 gennaio dello scorso anno, Donald Trump, si insediava alla Casa Bianca di Washington, diventando così il 45esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Quella del magnate newyorkese fu una scalata al potere fatta di slogan spesso razzisti, azioni controverse e fantasmi del passato da sconfiggere. Ciò nonostante, il consenso riscontrato nei seggi dei cinquanta Stati a stelle e strisce spiazzò i democratici del mondo intero, gettando l’Occidente in un cono d’ombra che sembrò aprirsi, improvvisamente, il giorno successivo alla sua elezione. L’opinione pubblica, i personaggi più influenti del mondo dello spettacolo, del cinema, dello sport non tardarono a manifestare il proprio dissenso, i gruppi femministi, le compagini LGBT, gli ambientalisti e tanti altri scesero in strada contestando, da subito, il risultato delle urne.
I dubbi che accompagnarono Trump durante il periodo della campagna elettorale circa i suoi rapporti poco chiari con la Russia tornarono presto a far visita al neo-Presidente, ipotizzando un’influenza dello Stato di Vladimir Putin sul voto. La teoria non fu mai accantonata e tutt’oggi tiene in bilico il governo del tycoon, in particolar modo dopo l’ammissione dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn (scelto, poi silurato da Trump) di incontri con l’ambasciatore russo Sergei Kislyak.
Ciò nonostante, da quel giorno d’inverno è trascorso un anno, dodici mesi fatti di scelte drastiche e discusse, di provvedimenti contro il clima e norme a ulteriore chiusura delle frontiere nazionali, di sgravi fiscali che hanno, sì, dato fiato alla Borsa, ma di cui a beneficiare risultano solo i grandi gruppi, le multinazionali, i detentori delle più grandi ricchezze.
Per la stampa mondiale, tuttavia, con la partecipazione straordinaria dei giornali di casa nostra – troppo spesso in prima fila quando c’è da dimostrare tutta la propria inutilità e inefficienza –, Donald Trump è stato il Presidente delle gaffe, delle battute di spirito, delle figurelle a reti unificate, insomma, un teatrino di burle e risate da generare nell’immaginario collettivo, in modo da distrarre la gente dai gravissimi criminali provvedimenti firmati dall’imprenditore con il fare da showman nello Studio Ovale.
Con lo stesso atteggiamento, proprio nel nostro Paese, Silvio Berlusconi ha affrontato ogni aspetto della sua carriera politica negli ultimi venticinque anni, con il placet dell’informazione che ha accompagnato le sue innumerevoli avventure giudiziarie con le barzellette raccontate ogni dove, con l’ironia spesso volgare e discriminante nei confronti del genere femminile, per accrescerne i consensi quando, in una comunità dotata di capacità intellettive appena nella media, sarebbe invece sparito dai radar, ripudiato dalla stessa gente che gli aveva offerto fiducia, messo all’angolo da tutti quei padri che, invece, in perfetto stile italiota, spingevano (e ancora spingerebbero) le proprie figlie tra le braccia delle opportunità offerte dal Cavaliere.
E se, stando ai sondaggi, la popolarità del fondatore di Forza Italia appare, manco a dirlo, in ascesa in vista delle prossime elezioni politiche del 4 marzo, in America, il fascino di Donald Trump sembra sortire un effetto decisamente minore rispetto ai giorni della sua elezione, anche nello stesso elettorato che ne aveva sancito il successo appena dodici mesi fa.
Il motivo di tale calo è da ricercarsi, probabilmente, nella mancata conversione in realtà delle tante promesse, nel caso Russiagate, infine, nella distanza che gli States hanno posto tra sé e gli altri Stati occidentali. Un bilancio dei primi 365 giorni della presidenza Trump si può facilmente affidare alle parole di Bernie Sanders: «È passato solo un anno? Pensavo ne fossero passati sedici», marcando in maniera netta il clima surreale creato dall’inquilino della White House.
Le principali manovre con cui Trump ha pensato di apporre, sin da subito, la sua firma sulla storia americana hanno visto l’abolizione – seppur parziale – del provvedimento sanitario dell’Obamacare, l’ordine esecutivo per il via libera alla progettazione del muro che dividerà il Texas dal Messico, con tanto di prototipi in cemento già realizzati, il tanto discusso travel ban, ossia la messa al bando dei cittadini provenienti dalle nazioni dichiarate pericolose per il rischio terrorismo, infine, non certo per importanza, un taglio delle tasse che, però, influirà soltanto sui ricchi, su quella ristretta fascia di contribuenti capaci di dichiarare un minimo di 225mila dollari.
E se ciò che è stato appena descritto non basta a render l’idea di quanto Donald Trump abbia arrestato la corsa al progresso promossa, in primo luogo, proprio dagli Stati Uniti, ragionare sul provvedimento criminale di stracciare gli accordi sul clima di Parigi, di rinunciare a sovvenzionare il programma di ricerca delle Nazioni Unite sul riscaldamento globale, dovrebbe rendere l’idea dell’inadeguatezza del magnate a ricoprire l’importantissimo ruolo che gli è stato follemente affidato dai suoi concittadini. In un anno soltanto, l’occupante della Casa Bianca ha aumentato i fondi destinati alla controversa prigione di Guantanamo – che Obama aveva provato, invece, pian piano a chiudere e smontare –, ha cancellato il limite imposto dal suo predecessore rispetto alle armi da fuoco, aumentandone in maniera considerevole la vendita, ha abbandonato il programma TTP, lasciando, così, alla Cina un sostanziale incremento del potere contrattuale sul mercato del Pacifico.
Un articolo, tuttavia, per quanto strutturato e pregno delle principali notizie riguardanti l’operato del 45esimo Presidente americano, non riuscirebbe a dare la misura dei danni procurati da Trump, non solo sull’economia, sul clima o sulle questioni sociali. Laddove il tycoon ha maggiormente influito in maniera netta con il suo fare cafone, da spaccone che tutto può comprare, è nell’atteggiamento che si riscontra, poi, negli uomini che si sentono autorizzati a trattare compagne e colleghe come oggetti del desiderio, souvenir da scrivania meritevoli di occhiate ammiccanti piuttosto che individui dai pari diritti, è nel fare dei giovani che credono al compromesso, ai soldi come unica fonte di futuro, unica via per la propria affermazione e rispettabilità, è negli atteggiamenti dei ricchi, dei potenti richiamati in patria grazie a una straordinaria riduzione delle aliquote, sempre più forti su dipendenti che diventano semplici ingranaggi, facilmente sostituibili, di una catena di montaggio che ha aumentato in maniera impressionante e immorale la forbice tra chi possiede tutto e chi non ha neanche il minimo.
Donald Trump, come Berlusconi in Italia, ha messo al bando l’eleganza, la correttezza, l’educazione, li ha resi fuori moda, li ha relegati a prerogative proprie dei deboli, di quelle categorie, come la LGBT che ha gettato in un angolo e preso a pugni, chiudendoli ancor più in un silenzio che, pian piano provavano e provano a rompere, si è fatto – involontario, per carità! – sponsor dei bulli e dei violenti… E, in alcuni casi, come in occasione dell’agguato a opera del Ku Klux Klan a Charlottesville, li ha persino difesi.