Alessandra Arini, classe 1994, trapanese di nascita e bolognese d’adozione, ha creato il progetto Umani di Bologna, pagina Instagram attraverso la quale prova a raccontare storie che incontra per strada nel capoluogo emiliano, con particolare attenzione alle persone senza fissa dimora, al caso, al margine, raccontando la bellezza anonima e provando a creare una mappa umana della città. L’abbiamo intervistata.
Alessandra, com’è nata l’idea di questo progetto?
«Ho iniziato il progetto fra il 2019 e il 2020, ispirandomi a Humans of NY, una pagina che prova a raccontare la città di New York attraverso gli ultimi e attraverso storie incontrate per caso creata da un fotogiornalista. Lui ha gettato un seme ed è fiorito in tanti altri luoghi, così ho deciso di provarci anch’io. Mi ero laureata in giurisprudenza ma l’idea di vestire la toga non mi entusiasmava, intanto i miei compagni di università diventavano professionisti e mi sentivo sola. Umani di Bologna è stato un modo per raccontare la città ma anche per farmi del bene. Intanto lavoravo nella pubblica amministrazione, e il pomeriggio o la sera, uscita da lavoro, andavo a cercare storie».
Cosa significava per Lei?
«Era il mio modo di spendere il mio tempo libero, ma anche e soprattutto un modo per tenere a me stessa un po’ di compagnia. Cercare storie, ascoltarle, trascriverle pareva darmi un ruolo, un’occupazione, in un periodo in cui mi sentivo smarrita. Sono sempre stata appassionata alla causa delle persone senza fissa dimora, a Bologna i portici ne sono sempre pieni, e sono le prime persone alle quali avrei voluto rivolgere le mie domande. Ero abbastanza tentennante e quindi ho pensato che creare un mio progetto e affidarmi a quello avrebbe potuto aiutarmi. E così ho fatto. Raccogliere storie è bello, immergersi, sentirle, viverle è bello. Anche se, a furia di raccontare quelle degli altri, si corre il rischio di dimenticarsi della propria. È un monito per me, cercare di non farlo».
Qual è la prima storia che ha raccontato o che avrebbe voluto raccontare?
«La prima persona di cui avrei voluto raccontare è un ragazzo molto giovane senza fissa dimora, che è morto in circostanze misteriose, probabilmente di suicidio prima che potessi effettivamente parlargli. L’evento della sua morte, nella sua tristezza, mi ha dato lo stimolo a cominciare davvero, a interrogarmi, chiedere e raccontare le storie ai margini poco note. La prima persona che effettivamente ho incontrato, invece, era un cantante di strada e proprio la strada mi ha aiutato perché ha una dimensione sua, accorcia le distanze. Ho ascoltato questo artista per tanto tempo, nelle mie passeggiate, perché avevo vergogna di avvicinarmi. Alla fine, gli ho spiegato l’intento della pagina e gli ho chiesto una chiacchierata. È stato subito disponibile. Ero felice, perché quando mi avvicino non conosco mai i retroscena della storia, lo faccio a scatola chiusa, non so se mi colpirà, semplicemente ascolto ciò che sento. Quella volta mi ha colpito. Era un rumeno che lavorava come metalmeccanico e nel tempo libero suonava a Bologna. Aveva partecipato a un talent televisivo, sembrava potesse decollare la sua carriera come cantante, ma non era andata così e aveva avuto l’umiltà di tornare a cantare in strada per i passanti.
Alla mia curiosità, comunque, le persone hanno reagito quasi sempre bene. Qualche volta ho incontrato un po’ di diffidenza ma poi il lato narcisistico, che secondo me è un po’ in tutti, e soprattutto il desiderio di essere ascoltati hanno sempre prevalso. Ora ho rallentato i miei soliti ritmi ma continuo a cercare sguardi. Pur nella ricerca del mio posto nel mondo in questo momento, non voglio abbandonare questo progetto perché mi piace l’idea che vedendo la mia pagina qualcuno possa leggerla e ricavare qualcosa da questi sguardi».
Le va di raccontare qualche storia che l’ha colpita di più?
«In una delle mie passeggiate, una domenica pomeriggio, in cineteca, la signora addetta alla biglietteria mi accennò la storia di un signore che entrava tutte le mattine alle dieci al cinema e usciva sempre di sera, intorno alle venti. Restava a guardare tutte le loro proiezioni. Il giorno dopo, tornai in cineteca per incontrarlo e lo trovai lì. Scoprii che era stato un ingegnere e imprenditore, conservando il sogno di fare il regista. Appena aveva potuto – quando l’ho incontrato aveva 83 anni – aveva iniziato a dedicare ogni suo giorno alla visione dei film.
Un’altra ricorrenza alla quale tengo è il 2 agosto, per la strage di Bologna del 1980 in cui sono morte 83 persone. Ogni anno provo a cercare i parenti delle vittime, nei giorni prima cerco appuntamenti commemorativi o di rintracciare chi ha conosciuto coloro che in quella data hanno perso la vita. La verità, comunque, è che ogni storia mi colpisce: Stefano, ricco veneto, finito sotto i portici di Bologna e diventato mio amico, morto in circostanze misteriose, molto probabilmente di suicidio.
Nunzia, campana ha fondato il primo bar per sordomuti, barsenzanome. Ha fatto mille lavori, si è appassionata alla LIS e ha deciso di aprire un locale assumendo solo personale sordomuto. Per dare possibilità a chi non ne ha e educare la società a un linguaggio di tutti e per tutti. Lì si ordina solo con il linguaggio dei segni. Mi ha raccontato che ha conosciuto anche suo marito a un incontro sulla LIS».
Cosa la spinge a continuare a percorrere questa strada?
«La parte più bella della mia vita, in questo momento, sono tutte le storie che ho raccontato. Getta un seme su qualcosa, su qualcuno e questo prenderà la sua strada. A me non è tornato apparentemente niente da questo progetto e invece mi è tornato tutto. Tutto il tempo, speso, tutto quello dedicato. È il mio tempo di qualità».