Vivere una città significa muoversi al suo interno e apprezzarne le espressioni più vere, il trovare i nodi della rete formata da chi la abita, seguirne i percorsi e i colori. In una metropoli come quella partenopea è fatale il perdersi tra mille e mille realtà, la capillarità degli interventi è un’arma a doppio taglio, ma può capitare che di fronte alle cose belle ci si trovi all’improvviso, e sentirne raccontare può essere un viaggio incredibile.
In questi ultimi due anni, l’incontro con alcuni artisti internazionali e il centro storico di Napoli ha preso forma in maniera esplosiva: un’associazione, Il Fazzoletto di Perle, ha coordinato un’azione di arte partecipata che ha avuto dei risultati che colpiscono occhio e cuore. Per capire un po’ di più di tutto questo abbiamo sentito la presidentessa dell’associazione, Giuseppina Ottieri.
Cara Giuseppina, per raccontare le cose belle di cui sei l’anima promotrice penso sia necessario partire dall’inizio, dal biglietto da visita. Come è nata la tua Associazione Il Fazzoletto di Perle?
«È nata da un viaggio in Africa, nel Sahara, da un’immersione in quel grande grembo materno in cui scivoli come nelle acque primordiali, proprio dove non c’è acqua. È nata da una notte in cui un fennec era così vicino alla mia tenda che ne sentivo il respiro e trattenevo il mio per lasciarmi annusare e tutto quello che ho visto sono state le sue impronte al mattino. È nata da una leggenda malese che racconta di un fazzoletto che si tesse da solo con perle purissime che sono gli accadimenti del mondo, uniti insieme da fili luminosi. Ogni anno un filo si aggiunge e quando il Fazzoletto sarà interamente tessuto l’Universo Mondo sarà concluso.
Sentire che tutto è connesso ci dà una grande responsabilità per ogni cosa che scegliamo di fare e per ogni traccia che decidiamo di trascurare.»
L’ultimo progetto che state portando avanti ha un nome e un’impostazione assolutamente particolari, e anche solo il racconto ha un’anima luminosa. Mi parli di Ultravioletto?
«C’è una parte dello spettro cromatico che l’occhio umano non riesce a percepire e che comprende l’ultravioletto. Evolutivamente la nostra specie ha segmentato la luce in maniera funzionale alla sua sopravvivenza, escludendo una parte di realtà. Per altre specie invece la percezione dell’ultravioletto è così importante da permettere l’individuazione delle fonti di cibo e del partner sessuale. È così per le farfalle, simbolo del progetto. Tuttavia, come i raggi ultravioletti, anche parti di realtà cui non attingiamo con i nostri filtri percettivi hanno degli effetti sul nostro corpo, sia benefici che dannosi.
Il lavoro che abbiamo fatto per questo progetto mira a relativizzare la conoscenza umana e a conferirle un ambito parziale di validità. La mappa non è il territorio ma noi possiamo allargare il nostro orizzonte di comprensione del mondo entrando in empatia con gli altri esseri, a qualunque specie appartengano.
Il nucleo dell’attività è stato il rione Sanità di Napoli, luogo di accoglienza ecumenica e di contaminazione di arti e di culture differenti, dove l’ibridazione aggiunge punti di vista inaspettati sul reale e il meticciato produce nuova bellezza. Ma la Sanità è anche un luogo spesso mappato utilizzando filtri parziali assunti come unici rivelatori di una realtà invece molto complessa. Noi abbiamo individuato spazi trascurati o abbandonati, aree verdi sottratte al controllo dell’uomo e uniche custodi urbane di biodiversità, posti marginali rispetto ai percorsi acquisiti eppure ricchi di storia e di arte. Abbiamo narrato storie ai bambini, piantato dei piccoli giardini per le farfalle, sentito le testimonianze delle persone anziane del quartiere che ci hanno restituito un’immagine oggi sconosciuta di quei luoghi. Abbiamo usato filtri diversi. E dopo questo abbiamo dipinto i muri.»
L’azione, quindi, ha come obiettivo e mezzo la partecipazione attiva del quartiere. Qual è stata la cifra stilistica della Sanità? Quali sono state le reazioni?
«Chi abita alla Sanità è immerso dentro più di duemila anni di storia in una maniera più viscerale e profonda che in altri luoghi della città. Forse anche meno consapevole, perché la continuità si è meno frammentata e la ghettizzazione seguita alla costruzione del ponte ha come preservato la fusione tra passato e presente. Forse qui i confini con l’aldilà sono più fievoli e non è sembrata tanto bizzarra l’idea di rendere visibile ciò che non lo è. Ognuno ha contribuito a suo modo. Le donne portando da mangiare e mille caffè al giorno, le pizzerie offrendoci i pasti e i bar la colazione, tutti ma tutti dando suggerimenti, essendo presenti, vegliando su di noi in ogni modo. E raccontando ai tanti visitatori quello che stavamo facendo. Sono loro i depositari del senso del progetto e al tempo stesso i suoi custodi.»
Ogni tipo di rapporto prevede due intermediari: cosa hanno portato con sé nel ritorno a casa i diversi artisti coinvolti?
«Una casa più grande.»
Parlando degli artisti, lo spirito di un progetto come questo è travolgente, ma bisogna avere anche un buon orecchio per percepirlo. Come sono stati scelti? Come li avete contattati?
«Un vincolo personale di affetto e di stima mi lega agli artisti coinvolti nel progetto. Sono cresciuta tra pennelli e colori ma l’arte è qualcosa a cui istintivamente guardo sempre con sospetto. Non è stata una scelta. Avevo un’idea e l’ho raccontata a degli amici. Il resto lo abbiamo fatto insieme.»
Impensabile e controproducente chiederti di descrivere ognuna delle opere con quello che è il loro significato e quello che si portano dietro, il minimo è augurarsi e di augurare a chiunque sia incuriosito un tour completo con te. Adesso ti chiedo invece di sceglierne solo una per raccontarcene qualcosa.
«Con Antonio Loffredo avevamo deciso di spostare gli interventi in una parte marginale del rione Sanità, la zona delle Fontanelle, ultima propaggine del quartiere prima della fine del mondo. Ho fatto un po’ l’occhio ai muri che potrebbero piacere agli artisti con cui ho collaborato e nei miei giri avevo fotografato quello della Tenda per Francisco. Non sapevo ancora cosa ci fosse lì. Quel posto è invisibile. Eppure accoglie, nutre e dà riparo a più di cento persone senza dimora. Invisibili anche loro.
Speranza nascosta è l’opera che poi Francisco Bosoletti ha dipinto sul muro della Tenda per Ultravioletto. Richiede un filtro per essere decifrata, una percezione attiva che dimostri la volontà, in chi osserva, di spingersi oltre quello che gli occhi fuggevolmente testimoniano e di partecipare alla costruzione dell’immagine rappresentata. Gli abitanti del quartiere svelano a chi non sa il segreto di quell’immagine al negativo, che può essere guardata invertita con il cellulare. E utilizzano lo smartphone per connettersi con il mondo fisico intorno a loro e non per isolarsi.»
Quali sono, invece, le mosse future, i progetti e i passi che vi aspettano?
«La mappa si è fatta più dettagliata. I nostri passi hanno molte più strade su cui posarsi. Il sistema in cui ci muoviamo è più complesso e anche la nostra flessibilità è aumentata. Abbiamo una varietà maggiore di scelte possibili per percorrere il territorio e infinite possibilità di contaminazione. Nei sistemi complessi le proprietà emergenti si moltiplicano. Qualcosa di bello verrà fuori.»
Sembrerà paradossale, e forse viene dato per sottinteso, ma non è così immediato. Come è avvenuta la scelta di un modo di espressione come quello della street art?
«Provo sempre un senso di disagio quando sento parlare di street art con riferimento ai progetti che ho curato. Non sono all’altezza del fenomeno street art. Mi interessava che dei contenuti importanti fossero veicolati da una forma di espressione in grado di arrivare a tutti, non solo a chi si occupa di animali o tutela le diversità. Tutto il lavoro di costruzione delle immagini è stato realizzato in maniera partecipata con le persone del quartiere, dai ricordi delle Fontanelle alla musica di Sanitansamble. Bambini, anziani e giovani materialmente hanno dipinto insieme agli artisti. Questo è stato l’aspetto più emozionante, vedere un quartiere partecipare alla rappresentazione della sua identità.»
Per concludere, e ringraziandoti, si potrebbe ritornare – e ho intenzione di farlo – su quanto il tuo incedere sia quello di una persona che lascia dietro di sé tracce luminosissime e leggere, ma tu cos’è che hai raccolto? Se dovessi raccontare qualcosa che ti è rimasto dentro, una di quelle sensazioni o uno di quei momenti che finiscono nel cassetto più segreto nascosto sotto il respiro, quale sceglieresti?
«Mi piace che tu dica leggere.
Mi piace lasciare tracce leggere. Effimere. Imprecise.
Ma mi ricordo della strada.
Prima c’è mio fratello. Il mio sangue e l’arte nel suo sangue, via Tribunali, le ali dell’angelo, i sogni nel ventre di Napoli e nel mare della Grecia, le notti lontane attaccati a un telescopio per unire le stelle.
Prima c’è un amico. I suoi occhi trasparenti come il suo cuore, due gattini piccolissimi, un tulipano forte come una quercia e delicato come un alito di vento, la musica dei Calle 13, il mate, la Sirena, le rondini a piazza San Domenico e la pizza sotto le stelle.
Prima.
Il prima è come le stelle. Puntini di luce nel buio prima che sorga il sole.
Dopo ci sono i fulgidi doni di artisti dal cuore grande innamorati di Napoli.
I colori soffiati sul viso da una sciamana, la chiesa di notte con il Magnificat di Mina, gli occhi dei bambini sul muro, un cane che risale il vento con due splendidi ragazzi, le notti in strada, gli occhi di padre Antonio che sorride, un tempio grazie a un incendio, il mate, un ulivo che sorride, una mosca con le ali d’oro, un giorno all’improvviso, due guance di bambina che sembrano albicocche.
Dopo.
Il dopo è come i fiori. Quando sorge il sole raccontano storie bellissime.
Scegli tu. Io non so farlo.»
NdC: i muri realizzati alla Sanità per Ultravioletto sono tre:
Speranza nascosta di Francisco Bosoletti, facciata del centro La Tenda.
Demetra e Kore di Tono Cruz e Mono Gonzalez, canonica della chiesa di Maria Santissima del Carmine alle Fontanelle.
Il totem della Perseveranza di Matu, accanto alla facciata della basilica di San Severo fuori le mura.
*Foto numero due e tre di Vittoria Di Giovanniello©