Ucraina, 24 febbraio 2023. È il 365esimo giorno di guerra. Anche stamattina a squarciare la luce morbida dell’alba è il suono antico delle sirene. Il corso degli eventi è impetuoso e incalzante. Trabocca dal fiume di parole pronunciate dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci ricordano che siamo un popolo libero, in guerra per la libertà. Ma di chi sia la guerra e di chi questa libertà, oggi, è ancora un gran mistero.
Tra le strade di Kyiv, Bucha, Mariupol, tutto è cambiato e niente è diverso. Sembra non sia dato saperlo a chi se ne fa poco degli annunci trionfalistici dei politici in doppio petto o t-shirt militari. È trascorso un anno e, ancora, non se ne può parlare. Eppure, è a questo che si riduce un conflitto se spogliato della retorica di un bravo oratore. A vittime e sopravvissuti. A volti che diventano numeri. A presente che diventa passato. A condizionale che si spera futuro. Non in questa guerra, però. Non in Ucraina.
È uno strano ticchettio quello delle 05:51. Un anno esatto. Le forze armate di Vladimir Putin che varcano il confine, i missili, le bombe, la fuga in Europa. Sono le prime – tante – immagini al tg sostituite, dodici mesi dopo, dai presidenti d’Occidente che si stringono le mani. A Kyiv, dove Zelensky riceve Biden, si alzano bandiere, ci si veste di tutto punto, si marcia in parata. Eppure, a pochi chilometri, si combatte una guerra. Qualcuno non ha più una casa, una madre, un figlio, un marito partito per chissà dove. Non importa. Non c’è tempo. Armiamo la libertà.
L’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU ha conteggiato, finora, 8006 civili morti e 13287 feriti. Numeri che si sa essere al ribasso perché l’Ucraina non fornisce cifre. E se non lo fa Kyiv, figuriamoci se lo fa Mosca. Gli unici dati che si rimpallano sono quelli relativi ai soldati nemici uccisi: la prima sovrastima, la seconda mette in atto l’operazione opposta. È a questo che si riduce un conflitto quando non si ha alcuna intenzione di risolverlo. A chi sporca più divise di sangue. Eppure, anche quelle, spesso, vestono chi mai avrebbe sognato di indossarne una. Sono ragazzi, sono impreparati, sono le vittime sacrificali sull’altare della libertà o della denazificazione, a seconda della trincea da cui si ascolta la propaganda.
Solo nel 2022, otto milioni di ucraini hanno lasciato il proprio Paese. Il 40% sono bambini, gli altri donne e anziani. Gli uomini, quando non si nascondono, sono arruolati o arruolabili. Fino a sessant’anni non possono varcare la frontiera. Che siano vivi o morti alla fine di tutto questo, nessuno restituirà loro l’orrore di un fucile imbracciato, di un grilletto premuto, di una bomba sganciata. Non importa. Non c’è tempo. Dateci altre armi.
Armi. Armi. Armi. È questo il leitmotiv degli ultimi dodici mesi. Si disdegna la guerra con il suo stesso fervore, con la stessa violenza verbale che ne anela una altrettanto potente ma concreta, fisica, armata. Il dibattito ruota tutto intorno a un novello concetto di giustizia che non cerca dialogo, intermediazione, alcuna forma di domanda. O è guerra o è connivenza, sostengono coloro che non intendono ascoltare. O con Zelensky o con Putin. Come se la scelta tra un Presidente o un altro significasse bramare la fine del popolo russo o di quello ucraino, come se fosse tutta – soltanto – una questione di trincea. Eppure, benché sia guerra, c’è nel mezzo qualcosa di più. Ed è di quel qualcosa che nessuno osa parlare.
Sono le vite che si perdono. I confini che si ridisegnano. Appena poche settimane e abbiamo voltato pagina. La guerra in Ucraina ha lasciato il centro per defilarsi ai margini, sullo sfondo di quotidianità che procedono indifferenti. Non uguali, non migliori, certamente peggiori ma comunque indifferenti. Alla guerra, come a tutti gli orrori di questi anni, ci siamo assuefatti. L’abbiamo messa in conto. Non ci interessa più. Eppure, è sotto i nostri occhi che si sta giocando la partita più importante. A loro modo – e per ragioni che pare persino superfluo sottolineare – tornano utili proprio le parole del Presidente russo nel suo show alla nazione di martedì: «Non stiamo combattendo contro gli ucraini […] Sono ostaggi del regime di Kiev e dei suoi padroni occidentali, che in realtà hanno occupato il paese per ragioni politiche, militari ed economiche».
Al lettore disattento dico subito che citare Putin non significa sostenerne la causa. Che se mi chiedesse da che parte sto, risponderei senza esitazione che tra la Russia e l’Ucraina, io scelgo la pace. Per entrambe, per chi muore sotto le bombe. Per chi la guerra non l’ha voluta e nemmeno l’ha chiesta. Allo stesso lettore consiglio, però, di rileggere questa dichiarazione spogliata del tono minaccioso del dittatore al Cremlino: «Sono ostaggi […] dei padroni occidentali, che in realtà hanno occupato il paese per ragioni politiche, militari ed economiche». È a questo che si riduce un conflitto quando si impara a contestualizzare.
I padroni di Putin sono gli stessi indicati da Papa Francesco, il solo leader che abbia mai implorato la pace. Che parola sovversiva. Sono i cani della NATO che hanno abbaiato alle porte della Russia, per citare il Pontefice. «Un’ira che non so se sia stata provocata, ma facilitata sì». È a questo che si riduce un conflitto quando lasci che il caro vecchio Zio Sam colpisca ancora. E ha colpito, stavolta, persino Sleepy Joe. Il dormiente. Il senza voce. Uno che, invece, sa pure come alzarla.
L’arrivo a sorpresa a Kyiv. Il sostegno indiscriminato all’Ucraina. Un chiaro segnale a Putin che, oggi, può godere di un’altra argomentazione. È una mossa, quella del Presidente statunitense, che, forse, può smuovere le acque. È a questo che si riduce un conflitto quando da guerra lampo diventa guerra di logoramento. A un’attesa costante di qualcosa che forse sarà ma potrebbe anche non essere. Noi non ce ne andiamo. Joe Biden lo ha detto al mondo. Ne paga il silenzio.
Cinquecento milioni. L’inquilino della Casa Bianca ha annunciato nuovi aiuti militari per un totale di mezzo miliardo di dollari: munizioni per l’artiglieria, sistemi anti-carro, radar per la sorveglianza aerea. Armi. Armi. Armi. È trascorso un anno e nessuno parla mai alle persone. Di vittime e sopravvissuti. È a questo che si riduce un conflitto quando prometti sangue e denaro. Quando dall’annessione della Crimea da parte russa, scegli di volare otto volte a Kyiv per cercare di impedire a Putin di divorare l’intero Paese. Chi divora chi, oggi, è una domanda che non si può fare. Non in questa guerra. Non in Ucraina.
05:51. Che strano ticchettio. Le forze armate di Vladimir Putin che varcano il confine, i missili, le bombe, la fuga in Europa. È il 365esimo giorno di guerra. Anche stamattina a squarciare la luce morbida dell’alba è il suono antico delle sirene. Il corso degli eventi è impetuoso e incalzante. Trabocca dal fiume di parole pronunciate dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci ricordano che siamo un popolo libero, in guerra per la libertà. Ma di chi sia la guerra e di chi questa libertà, oggi, è ancora un gran mistero. O forse no.