Sfilano, cantano, ballano. Sono così gli italiani, sempre pronti a festeggiare. Anche ad aprile, con il primo sole sincero, quando tra uno striscione e un post sui social, il 25 si scoprono tutti antifascisti.
In migliaia, forse a milioni, organizzano cortei, riempiono piazze, prendono in prestito slogan e canzoni, almeno per un giorno rievocano la storia e ne vanno fieri. Qualcuno si chiama compagno, qualcun altro soltanto democratico, tutti comunque imbracciano la Costituzione e piangono il partigiano. Un nonno, uno zio, forse un parente lontano, magari un estraneo senza nome, una fotografia in bianco e nero o l’intestazione di una strada della propria città. Volti di un tempo che fu a cui dovere il giusto ringraziamento, quello per un Paese liberato ma mai veramente libero. Non da Mussolini, di lui conosciamo la fine, quanto dal suo fantasma e da una scuola di pensiero che a Piazzale Loreto non ha chiuso i battenti, anzi ne ha persino spostato la sede.
Così, la Liberazione si è fatta derby, giornata di discussione, scontro non solo tra fazioni politiche diverse – l’una, tra l’altro, anticostituzionale –, ma anche tra sedicenti antifascisti per i quali la dittatura andava sconfitta indicandole cortesemente la via di casa. D’altro canto, è questo l’Italia, un Paese democratico quanto basta per pensare che le rivoluzioni si possano fare con i fiori e i per favore. Magari, con un elenco di cose buone che rinnega il passato e, quindi, il futuro, dando un colore e un merito nuovo a chi sa solo rifugiarsi in una divisa scura come il fondo della propria anima.
Un’anima a cui, tuttavia, ancora è concesso il diritto di essere, una libertà di espressione che il fascismo stesso, per sua definizione, ha sempre negato e continua a fare, chiunque sia il nemico di turno. In realtà, lo stesso di ieri. Rom, omosessuali, comunisti, immigrati, qualsiasi soggetto sia in grado di formulare un pensiero proprio, diverso da quello comune, convenzionalmente accettato perché propinatoci dai nuovi totalitarismi travestiti da piattaforme di condivisione online.
Un Paese democratico quanto basta, l’Italia, per dare la parola a tutti, anche a coloro che oggi la reclamano a gran voce ma ieri e ancora adesso impediscono a chi ha un modo differente di guardare all’altro, finendo per essere onnipresenti e avere voce in capitolo, liberi – loro sì – di andare in giro a incutere timore, a pretendere di tornare a marciare su Roma e su ogni città, fino a riprendersi tutto, sdoganati ormai dall’immaginario comune di una nazione che li ha presi a calci una volta ma senza sbarrare le porte, confermandosi masochista e peggior amministratrice di se stessa, figlia di un’ideologia romana in cui ancora fieramente riconoscersi. Una libertà di pensiero che si dice garantita da quella stessa Carta Costituzionale che calpesta e che non ci sarebbe mai stata se un nonno, uno zio, un parente lontano o un estraneo non si fossero battuti per poterla scrivere. Il solo sangue a fare da inchiostro ma, alla luce dei fatti, forse, in modo inutile, probabilmente al solo scopo di consentire a migliaia, milioni di italiani di festeggiare, sfilando e cantando il 25 aprile, quando si scoprono tutti antifascisti. Persino i proclamatisi di sinistra che, però, la Costituzione l’hanno modificata eccome, martoriata e rinnegata. Violata nella sua unicità.
La Liberazione, allora, si è tramutata in novella Pasquetta, un giorno sgombro dagli impegni quotidiani, una data segnata in rosso sul calendario e che, tuttavia, non è celebrazione o commemorazione, tantomeno insegnamento. Piuttosto, un insieme di nomi lasciati al vento, lettere scolpite nella pietra, incisioni di morte che rivendicano vita. Storie, migliaia di storie, che in pochi raccontano e in pochissimi ascoltano. Nonni senza voce, nipoti senza udito, il passato che non veste i panni del maestro. Un dono che nessuno vuole più scartare. Altrimenti, non ci sarebbero loro, i fascisti, e nemmeno gli antifascisti, quelli occasionali, nati e cresciuti solo per il 25 aprile, per il gusto di festeggiare un momento che è di tutti ma non per tutti. Di certo, non per chi non si vede per le strade quando un gruppo di bulli nostalgici blocca una via, fa pellegrinaggi, appicca fuochi e organizza ronde, occupa edifici e schiaccia il più debole, addirittura si candida alle elezioni. In quel caso, dei compagni, dei democratici, nemmeno l’ombra. Forse, dopo, una fiaccolata di sdegno. O un altro post.
Al contrario, non ha remora alcuna chi ogni giorno combatte l’immigrato, spera in una barcone che affonda, chiude i porti e vota i Salvini, i Fiore, i Di Stefano, le tartarughe e le forze nuove, quelle che i partigiani saprebbero come respingere e che noi, tutti, invece, indegni figli di una Resistenza vana, avalliamo con i nostri silenzi, una finta democrazia che rima con rea complicità quando riempiamo le piazze a comando, quando non applichiamo la legge – che c’è, ma nessuno se ne accorge –, quando ci governiamo insieme, quando permettiamo che la Costituzione sia carta straccia, un sacrificio di molti per la libertà di pochi. E, invece, è la nostra unica arma, il più grande tesoro, l’eredità di chi ci ha creduto. Come Luciano Tondelli.
C’è un 15 aprile accanto al suo nome, l’anno è il 1945. Lo chiamavano Bandiera, come quel vessillo che se ancora sventola è perché qualcuno, al suo fianco, ha confidato che fosse possibile dargli un senso vero, che potesse significare unità e non esclusione. Mancavano solo dieci giornate alla fine della guerra, ma lui non lo avrebbe mai saputo.
Luciano è morto con il sole, venuto al mondo e congedatosi nello stesso posto, in una provincia emiliana rossa come la terra al suo cedere per mano nemica dell’umanità. Ricorda, ragazzo: la storia non cambia se tu non la cambi. Qualcuno gli aveva detto così e allora non ci aveva pensato un attimo, ma un attimo era bastato per morire. Uno scontro a fuoco aveva reso una madre un fantasma, l’eco lontana di un tempo ormai andato, quando inesperta si era lasciata amare dando vita a un fiore.
Un papavero, un altro, un intero campo. Come lui tanti, troppi, giovani, figli, fratelli, padri di famiglia. Luciano è morto aspettando l’estate, le braccia tese verso l’alto ne avevano rallentato l’arrivo. Che potesse finire lo aveva sempre saputo, ma che toccasse a lui finire prima non sembrava affatto giusto. E, così, è morto a neanche vent’anni. Il ragazzo e mai l’eroe. Mancavano solo dieci giornate.
Luciano era antifascista, di quelli veri, e lo è stato per noi, una vita data per la libertà. Per questo non basta il 25, per questo non basta la Liberazione, per questo non basta il primo sole sincero. Perché in un attimo il vento cambia e l’inverno torna, perché una data simbolica non diventi la sola. Perché si è partigiani sempre, in ogni scelta di ogni giorno. Quindi, se non lo siete, togliete pure la maschera. È tempo di verità.