Migranti, memorandum, gestione dei flussi. Il linguaggio è sempre lo stesso, l’obiettivo pure: negare l’accesso in Europa. Dopo gli accordi con la Libia voluti dall’allora Premier Paolo Gentiloni (PD), l’Italia e l’Unione Europea lavorano in questi giorni a una nuova intesa, stavolta con la Tunisia, per contenere l’emorragia umana che dall’Africa sub-sahariana si muove verso il Vecchio Continente.
È per questo che la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni è volata a Tunisi per ben due volte nel giro di una settimana, accompagnata – nell’incontro di domenica – anche dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e dal Primo Ministro olandese Mark Rutte. La promessa, espressa in una nota congiunta dei tre leader, è il foraggiamento delle casse del Paese nordafricano, da tempo in condizioni economiche precarie.
Nell’immediato si parla di circa 150 milioni di euro, in prospettiva di oltre 900, fondamentali per evitare un default che di fatto va sempre più concretizzandosi. La volontà, più volte ribadita, è quella di arrivare al Consiglio Europeo di fine giugno con un memorandum d’intesa già firmato da UE e Tunisia «per affrontare in maniera integrata tanto la crisi migratoria quanto il tema dello sviluppo per entrambe le sponde del Mediterraneo».
Con la Tunisia, ha dichiarato von der Leyen, «ci unisce molto di più della posizione geografica, ci unisce la storia», pertanto «è nel nostro comune interesse rafforzare le relazioni e investire nella stabilità e nella prosperità del Paese». Il riferimento è alla grave crisi economica che da mesi sta travolgendo lo Stato nordafricano. L’inflazione ha toccato cifre storiche, i costi delle importazioni sono insostenibili e pure i prezzi dei generi alimentari: a Tunisi, Cartagine, Sfax, c’è carenza di zucchero, pasta e altri beni di prima necessità, così sempre più tunisini sognano l’Europa che, in cambio, promette di aiutarli a casa loro.
I negoziati per un prestito del Fondo Monetario Internazionale – di circa 1,9 miliardi di dollari – sono a un punto morto e la Banca Mondiale ha annunciato già da marzo la sospensione sia del partenariato con la Tunisia sia dei colloqui sulla direzione strategica del Paese. Sembra un buon momento, dunque, per l’Italia e l’Europa, per riprendere il controllo di una zona che da sempre fa gola alle forze comunitarie sia in chiave migrante sia per l’inseguimento della tanto agognata efficienza energetica, che di avamposto in un continente dove l’accento asiatico comincia a farsi frequente.
La questione tunisina, in effetti, è da settimane al centro delle preoccupazioni in particolare di Giorgia Meloni, che anche al G7 di Hiroshima ha portato all’attenzione del tavolo un dossier ad hoc per sollecitare una risoluzione tra il FMI e il Paese nordafricano. Tra il primo che non intende elargire fondi senza condizioni e il secondo che si ostina a non fornire le necessarie rassicurazioni, ribadendo di non voler cedere a quelli che definisce dei veri e propri diktat sulla sua politica interna, però, la strada sembra lunga e ancora decisamente impervia.
Dal 2019, alla guida della Tunisia c’è Kaïs Saïed, che due anni or sono ha sciolto il Parlamento, accentrando su di sé i pieni poteri e facendo arrestare chiunque potesse rappresentare un ostacolo alla sua corsa totalitarista. Come se non bastasse, nei mesi scorsi il Presidente ha scatenato una vera e propria caccia all’uomo, consegnando alla rabbia popolare gli immigrati provenienti dall’Africa sub-sahariana. Sono sue, infatti, alcune dichiarazioni razziste che fanno registrare tutt’oggi decine di aggressioni nel Paese e la fuga di molti cittadini stranieri costretti a fare ritorno in Costa d’Avorio, Mali, Gabon e Guinea o a nascondersi.
Come molti dei suoi colleghi che fanno della questione migratoria il miglior capro espiatorio della loro incapacità politica, Saïed sostiene infatti che «l’immigrazione clandestina fa parte di un complotto per modificare la demografia della Tunisia affinché venga considerata come un paese solo africano, e non più anche arabo e musulmano». Una versione locale, insomma, della teoria della “grande sostituzione” portata avanti dall’estrema destra di tutto il mondo, come abbiamo raccontato di recente guardando persino in casa nostra. Anche in questo caso, i social fungono da importante supporto a tali assurdità.
Sulle piattaforme online, infatti, circolano numerose fake news che alimentano il malcontento: nel Paese, si legge, vivrebbero circa due milioni di migranti irregolari a fronte di una popolazione di tredici milioni. Ben altri numeri, invece, segnalano le organizzazioni umanitarie che parlano di circa 250mila immigrati. Il punto focale, però, è un altro: ancora una volta, il nemico ha la pelle nera. Anche per chi siede a Palazzo, legifera e sceglie tutto da sé, senza confronto, supporto o opposizione. Basti pensare che la partecipazione alle ultime elezioni è stata inferiore al 10% degli aventi diritto che, forse, in un Paese che storicamente non brilla per democrazia, ancora faticano a immaginare una concreta possibilità di scelta ed emancipazione.
Perseguitati da Saïed, però, sono anche le persone omosessuali, gli oppositori politici, i sindacati, l’informazione tutta – oggi totalmente al suo servizio – nonostante, al suo insediamento, riprendendo De Gaulle, il Presidente avesse dichiarato di non voler certamente cominciare «una carriera da dittatore» alla sua età. Insomma, quello che è a tutti gli effetti un populismo autoritario e violento sta incidendo adesso sulle politiche comunitarie, e non solo, con il solito spauracchio migrante che, poi, è quello che sfrutta Erdoğan sul fronte turco o la guardia costiera libica che da anni, da una parte e dall’altra, estorcono milioni di euro all’Europa per tenere in ostaggio – e torturare – chi scappa in cerca di un Paese innocente. Fiducioso, almeno lui, che esista.
Poco importa che il Primo Ministro Rutte abbia precisato che fondamentale, ai fini dell’accordo, sia il rispetto dei diritti umani. Sappiamo bene, fin da ora, che così non è e che non sarà così in prospettiva. Quale rispetto si può ottenere da un regime totalitario? Da un uomo che, di fatto, ha cancellato qualsivoglia forma di democrazia? Come può l’Europa sedersi sempre, e sempre nelle stesse modalità, al tavolo di chi non conosce diritto? Tra quanto diremo che Saïed è un dittatore di cui si ha bisogno?
Nonostante il tono soddisfatto di Giorgia Meloni, il Presidente tunisino ha prontamente dichiarato che «l’idea, che alcuni sostengono segretamente, che il Paese ospiti centri per i migranti in campo di somme di danaro è disumana e inaccettabile». E sebbene siamo d’accordo, sappiamo che l’obiettivo di Saïed, non appena i suoi colleghi sono ripartiti, è stato mettere i puntini sulle i e non uno slancio a favore di persone che nessuno considera tali: alzando la posta in gioco, Tunisi spera che l’UE pressi il Fondo Monetario Internazionale, che ottenga quanto dovuto secondo le proprie regole – al momento, il diktat del FMI è coperto da segreto – e i migranti continuino a fungere da pedina di scambio fino alla prossima richiesta.
A oggi, gli accordi che l’Italia ha stretto con Tunisi – circa 47 milioni di euro dal 2014 – hanno soltanto contribuito alla militarizzazione della frontiera. Il Paese non è sicuro per chi ci vive o per chi deve transitarvi. Secondo i dati resi noti da Vita, dei 45380 migranti sbarcati sulle coste nostrane da inizio 2023 sino al 12 maggio, il 7% è di origine tunisina e la maggior parte di chi arriva parte da Sfax, la seconda città del Paese, da qualche mese il principale hub migratorio verso l’Italia, da cui la separano appena 150 chilometri. Ma Sfax – come ha denunciato La Repubblica – è anche la città il cui obitorio ospita sempre più corpi di quanti può contenere.
Corpi di donne, uomini, bambini che hanno tentato la traversata e che, tuttavia, il mare ha restituito alla terra. Corpi di cui si continua a parlare come fossero merce, come fossero massa, come fossero niente. E niente, di loro, interessa a Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen, Mark Rutte e Kaïs Saïed. Ognuno preso soltanto dal proprio gioco. Il gioco di un potere che logora, a suo modo, chi è già logorato.