Ricordo le sere in cui mio padre si sedeva accanto al mio letto con un libro in mano e iniziava a raccontare. Con la sua voce profonda evocava nella penombra della mia cameretta elfi e folletti, fate e spiritelli, e io li immaginavo danzare alla luce fioca della lampada sul comodino. Pian piano mi addormentavo e anche i miei sogni erano popolati di draghi e troll, radure incantate e montagne nebbiose.
Imparai a leggere e presi possesso di tutti i romanzi nella sua libreria: da Tolkien a Lewis, dalle leggende norrene alle fiabe germaniche. Con il tempo, però, le mie letture hanno cominciato a cambiare. Più crescevo, più la realtà che da bambina trovavo noiosa mi turbava e affascinava e cercavo storie che me la facessero comprendere.
È da tempo che non leggo un libro in cui i protagonisti sono bambini, antiche leggende e creature fatate. Non è bene, da adulti, indugiare nell’escapismo. Viviamo in un’era complicata, la nostra umanità è incerta e spezzata, e dobbiamo affrontare il mondo in cui viviamo: non possiamo perdere tempo a sognare nani e spiritelli. Però, siamo sicuri che il fantastico serva solo a scappare dalla realtà?
Con questa domanda in testa, ho affrontato la lettura di Tundra e Peive, il romanzo di Francesca Matteoni appena pubblicato da nottetempo. I protagonisti di questa storia – Talia, una bambina dai sogni irrequieti, Bess, una donna antica, Tundra, un folletto bambino, e Peive, un gatto mutaforma – si muovono in una città scura, in cui spiriti arborei, uomini dall’ombra lupesca e donne-orso sono messi alle strette da qualcosa di fin troppo reale.
Per primi se ne sono andati gli ontani, così schivi, non sopportavano più il torbido dell’acqua e ciò che risaliva per le loro radici. Infine ve ne andrete voi. E io aspetterò.
La città è cupa, senza luce, senza inverno. Gli alberi hanno mutato forma: inglobando le scorie e i cumuli di spazzatura dei marciapiedi sono diventati ibridi fatti di legno e plastica, con i liquami tossici al posto della linfa. I rampicanti sono diventati malevoli, velenosi, come serpenti. L’erba – quella che rimane – è una poltiglia fosforescente e radioattiva.
Gli antichi spiriti che abitavano le piante sono morti o impazziti, le loro menti rotte e sostituite da qualcosa di folle e demoniaco. L’umanità ormai vive in un oblio continuo: per proteggersi dalla verità, chi vive in quell’incubo urbano dimentica costantemente chi è, da dove viene, dove sta andando. In città, è difficile non perdere anche il proprio nome.
Gli unici a rendersi conto della lenta e inesorabile metamorfosi che la città sta attraversando sono proprio questi eroi piccoli (una bimba, un folletto, una donna, un gatto) ma con un compito enorme: starà a loro cercare l’origine di tutto, il momento in cui l’alleanza tra umani e spiriti della natura è stata avvelenata e pervertita.
I nostri eroi risaliranno il fiume del tempo e si inoltreranno in vite e giorni reconditi per ricucire lo strappo con il presente. Solo facendo i conti con legami spezzati e affetti perduti sarà possibile riportare l’equilibrio tra i viventi: la memoria si opporrà all’oblio ignorante dell’umanità e le leggende antiche ridaranno un senso alle cose.
Tempo fa, lessi un articolo sul reincantamento. Il discorso nasceva dalla parola opposta, disincantamento, coniata da Max Weber ne La scienza come professione. Qui l’autore riteneva che lo sviluppo tecnologico della società (e la burocratizzazione del mondo) avesse modificato l’atteggiamento degli uomini nei confronti del reale. Tutto ciò che era legato al pensiero magico – come il senso di meraviglia per i misteri del cosmo – era stato sostituito da una fede unica nei concetti di utilità ed efficienza.
Una volta morto il “mondo antico”, pieno di miti, leggende e favole, è morto anche il senso di meraviglia verso la realtà. Gli alberi hanno smesso di essere spiriti saggi e antichi e sono diventati legname, carta, ettari da coltivare. Le montagne, ormai svuotate di elfi e spiritelli, hanno perso la loro sacralità e sono diventate cave da cui estrarre tufo e materiali preziosi.
La rivoluzione industriale è stata portatrice di un unico mito: quello dell’uomo, invincibile, superiore e padrone di ogni cosa. Il concetto di utilità di cui scrivevo prima non riguarda ciò che è utile per le piante, le bestie o il pianeta, ma esclusivamente ciò che è utile all’uomo stesso. E non utile per il futuro: no, nel mondo disincantato c’è solo il qui e ora.
Proprio come gli uomini della città di Tundra e Peive: senza memoria, non hanno un passato e non sono neanche in grado di concepire un futuro. Non riescono a vedere le creature magiche che si nascondono tra di loro né le piante tossiche che tolgono il respiro: tutto ciò che non è umano è nascosto da una coltre di nebbia. Sono ciechi, nel loro disincanto.
Un’incarnazione del disincanto, in questo libro, è proprio un personaggio magico: il Senzastelle, o il Nomade. È uno stregone cinico, freddo. Orchestra e alimenta la follia in cui sta scivolando la città, ruba e manipola le storie altrui. Il suo è un passato di violenza e morte che l’ha portato a credere che la distruzione sia una forma di controllo.
Tu vuoi stabilire connessioni ed equilibri? Tu agisci perché hai amato […] Io so che tutto questo è sciocco, so che l’unica via è il controllo di qualsiasi cosa sia mai stata e ancora esista. Chi controlla è libero. Chi controlla schiaccia ed eleva a suo piacimento.
Le parole del Senzastelle sono una manifestazione della follia umana: la pura convinzione di essere padroni del mondo, di poter disporre della vita e della morte di interi ecosistemi. Non ci percepiamo più come abitanti della Terra, che coesistono con pari dignità con le altre creature, ma come vincitori assoluti e conquistatori della realtà.
Abbiamo il controllo; piante, bestie e montagne non hanno più alcun mistero o rilevanza nel nostro Antropocene. Hai cercato potere nella forma del controllo e il controllo è diventato oppressione, morte, disperazione – dice la donna antica, Bess, al Senzastelle – Ma non puoi controllare presenze più vecchie di te e di ogni altro umano mai esistito, più vecchie e capaci di rigenerarsi di questo presente in cui non vediamo oltre le nostre piccole esistenze.
Pensiamo di aver addomesticato la natura confinandola in aiuole e parchetti, di aver sconfitto una nemica un tempo crudele e indomabile, di averla resa nostra schiava. In realtà, ciechi, non ci accorgiamo di andare incontro alla distruzione del nostro mondo.
Siamo sicuri che il fantastico serva solo a scappare dalla realtà? Mi chiedevo all’inizio di questo romanzo. La risposta, per me, è no. L’umanità non ha creato miti e leggende per distrarsi o fare escapismo. Lo ha fatto per dare una cornice di senso al mondo, creare ontologie in cui gli esseri umani avessero un posto preciso accanto alle altre creature terrene.
E quei miti ammettevano la presenza dell’altro, davano uno spirito ad alberi e bestie e accettavano perfino che l’uomo fosse meno potente rispetto a creature magiche e divinità. Di quella mentalità non ci interessano le superstizioni, ma il punto di vista sul mondo.
Se il disincanto porta alla cecità e all’antropocentrismo, allora il reincantamento incarna il processo opposto. In un’ottica tecnicista e burocratizzante del reale, le cose finiscono per esistere solo se utili al processo di organizzazione sociale. Invece, come scritto da Marco Mattei, abbiamo bisogno di ritrovare una dimensione “spirituale” della realtà, dove per spirituale si intende uno spettro di fenomeni che vanno dalla “meraviglia” alla ricerca del “senso”.
E non si tratta di tornare a credere a fate e folletti, di praticare riti esoterici o neopagani o di negare la scienza. Al contrario, si tratta di sviluppare una nuova razionalità empatica, vicina a tutte le forme del vivere, e che rimanga consapevole che le nostre teorie sul mondo […] non colgono che una parte della realtà, lasciandone fuori quell’elemento ineffabile.
Dobbiamo perdere il ruolo che abbiamo assunto di padroni del mondo e riposizionarci all’interno di quel reticolo di esseri viventi che ci circonda. Come? Con l’immaginazione. È stato un mito – quello dell’invincibilità umana – a portarci fin qui e possono essere nuovi miti a ricalibrarci. Allora, ben vengano i romanzi come quello della Matteoni, che costruisce nuove alleanze e immaginari non per fuggire dalla realtà, ma per reincantarla.