Il secondo dibattito presidenziale, quello che avrebbe visto fronteggiarsi ancora una volta Donald Trump e Joe Biden dopo l’imbarazzante incontro del 29 settembre scorso, non si è tenuto. Dopo la sua positività, infatti, il Tycoon ha rifiutato il confronto a distanza, impiegando gran parte del suo tempo a negare qualsivoglia conseguenza della COVID-19 e a minimizzarne l’impatto, con roboanti dichiarazioni circa lo sviluppo record della sua immunità al virus e il miracolo della sua salute di ferro. Dall’adesione alle nuove modalità secondo coscienza, quindi, l’instancabile lavoro profuso nella narrazione della sua invincibilità avrebbe tratto solo svantaggi.
Così, il 15 ottobre, i candidati si sono rivolti al popolo americano avvalendosi di uno strumento diverso: due eventi pubblici separati, durante i quali hanno affrontato i temi che avrebbero dovuto dibattere insieme e che si erano già rivelati critici nel corso della prima malriuscita serata. I comizi sono andati in onda alla stessa ora su reti diverse: Trump su NBC e Biden su ABC. La scelta di ospitare l’intervento del Presidente in contemporanea con quello del suo contendente è stata aspramente criticata: si temeva soprattutto la mancanza di un confronto diretto. Inoltre, fatto non meno importante, i due eventi hanno spaccato il pubblico degli elettori, dando priorità massima alla concorrenza televisiva tra le emittenti.
Le premesse, in fondo, lasciavano presagire questo: uno spazio tv all’interno del quale poter esprimere, senza contestazioni moleste, la propria visione per gli Stati Uniti di oggi e del futuro. Se la decisione di Biden di tenere una sessione di botta e risposta con gli elettori, moderata dal giornalista ed ex portavoce della Casa Bianca George Stephanopoulos, può essere stata frutto di un’attenta pianificazione strategica – il candidato democratico, continuamente interrotto da Trump nel corso del primo dibattito presidenziale, non era riuscito a mettere insieme neppure una frase intera di senso compiuto che ne illustrasse il programma –, la decisione del Presidente uscente di scimmiottarlo e rilanciare con un programma tutto suo sulla NBC si è rivelata un passo falso.
Donald Trump è apparso come un animale ferito dinanzi alla giornalista Savannah Guthrie, divenuta idolo delle folle già durante la diretta tv per la sua intransigenza di fronte alle risposte elusive del Tycoon. Il suo atteggiamento, infatti, ha reso ancora più evidenti tutte le contraddizioni, le informazioni parziali e le dannose parole profferite dal Presidente. La pretesa di verità, spesso reclamata, si è rivoltata contro di lui. Partendo in quarta, ha dichiarato di non sapere se avesse fatto il tampone il giorno del primo dibattito, di non avere alcun problema con le mascherine, ma di sapere per certo che l’85% delle persone che le indossano prende comunque la COVID: affermazione smentita a tempo zero dalla giornalista, la quale ha specificato che si tratta dell’interpretazione scorretta di un recente studio.
Guthrie è tornata spesso, nel corso della serata, sulla responsabilità del Presidente nella diffusione di fake news e teorie del complotto, incalzandolo a ogni tentativo di smentita. Particolarmente interessante è stata la successione di domande su QAnon e sul supporto di Trump ai gruppi di estrema destra, alle quali lui ha risposto mettendo in un unico calderone suprematisti, complottisti e antifascisti: «Mi fate sempre questa domanda… Però a Joe Biden non chiedete se condanna gli ANTIFA. Io li condanno, i suprematisti bianchi ma, francamente, condanno anche ANTIFA e tutti quelli di sinistra che stanno mettendo a fuoco le nostre città». E ancora: «Non ne so niente di QAnon»– proprio il giorno prima, aveva ritwittato una loro teoria secondo la quale Joe Biden avrebbe coperto la morte fasulla di Bin Laden – «Me l’ha appena raccontato lei, ma quel che mi ha detto non corrisponde necessariamente ai fatti. So per certo che sono contro la pedofilia, ma di loro non so niente. Le dirò cosa so, invece: so di ANTIFA e della sinistra radicale e so quanto sono violenti. […] ANTIFA esiste davvero».
Queste affermazioni hanno sempre fatto parte della cassetta degli strumenti di comunicazione del Presidente eppure, mai prima d’ora, gli si erano ritorte contro con tanta forza. La sua abilità di fare gaslighting, di confondere le acque, di dire tutto e il contrario di tutto, sono ormai segnali chiari di mancanza di argomenti per la sua pessima gestione dell’emergenza pandemica: per smascherarlo è bastata una giornalista che gli facesse le giuste domande e perseverasse nel pretendere una risposta chiara.
Intanto, su ABC, Joe Biden ha accantonato per un paio d’ore la retorica anti-Trump, parlando di diritti LGBTQ+, di cambiamento climatico – forte del recente endorsement ricevuto da Greta Thunberg –, di piani per la gestione della pandemia e per la ripresa del Paese. Il suo spirito di centrista moderato è emerso soprattutto nelle domande sulle questioni sociali e di ordine pubblico. Quando un elettore indeciso gli ha chiesto come fare a sbarazzarsi del razzismo sistemico negli Stati Uniti, la sua risposta è stata quella che avrebbe dato qualsiasi buon capitalista: le istituzioni devono garantire alle minoranze la possibilità di accumulare ricchezza e di accrescere quella ricchezza per emanciparsi. Inoltre, ha ribadito di essere a favore di una riforma delle forze armate e del sistema delle carceri, ma non del taglio dei fondi ai corpi di polizia, come chiedono a gran voce le comunità in protesta.
Per Biden l’evento televisivo al Town Hall di Philadelphia deve aver rappresentato il riscatto dal bullo, una seconda opportunità per riparare alle occasioni perdute nel primo ignobile e vuoto confronto. All’epoca, moltissima stampa americana aveva usato, riferendosi al dibattito presidenziale, l’appellativo shitshow, termine che potremmo rendere in italiano con farsa – perdendo, però, gran parte della veemenza dell’americano shit e, con esso, il senso di frustrazione e incredulità dei giornalisti e del pubblico durante la messa in onda, quando gli Stati Uniti avevano mostrato un volto democratico isterico, debilitato, appena decadente, attraversato da solchi profondi come le rughe dei candidati. Entrambi hanno superato da tempo la soglia dei settant’anni: Biden (77) sarebbe, dopo Trump, il presidente più vecchio nella storia degli USA. Sebbene rappresentino due fazioni contrapposte, sono figli della stessa America, dunque della stessa forma mentis.
Biden, il più centrista dei Democratici, il liberale meno progressista, ha puntato tutta la sua campagna elettorale proprio sulla moderazione, designandosi come l’unico ostacolo tra il delirio dell’era Trump e il suo secondo possibile, ma non auspicabile, mandato. A far sembrare solida l’opzione Biden è il fatto che le sue proposte strizzino l’occhio più alla middle e alla working class acculturate che non ai ceti sociali più deboli e spaventati. Il candidato ha raccolto e continua a raccogliere endorsement dalla stampa e dai media più a sinistra, eppure, anche qui, alla base di questo appoggio c’è spesso più la paura di un secondo mandato Trump che non una netta adesione alle sue proposte.
In comunicato stampa dal titolo The New Yorker endorses a Biden Presidency, la redazione della prestigiosa rivista scrive: sarebbe di sicuro un sollievo avere semplicemente un Presidente che non sia un bugiardo cronico, un Presidente che non abusi del suo potere d’ufficio come un gigantesco truffatore. Sarebbe un sollievo avere un Presidente che sia leale per indole alle istituzioni democratiche e che si rifiuti di far causa comune con i nazionalisti bianchi, con QAnon e la combriccola degli estremisti. È vero, Biden non è un oratore sopraffino o una mente monumentale, eppure riesce a trasmettere genuinità e spirito di comunione a un vasto assortimento di Americani. La retorica dell’anti-Trump, dunque, sembrerebbe bastare a vincere le elezioni: le prime proiezioni vedono Biden distaccare di parecchi punti l’avversario, ma dovremmo ormai esserci abituati alla volatilità e alla rischiosità dei dati preelettorali, che mostrano spesso una realtà solo parziale. Era, in fondo, andata così già nel 2016: Reuters dava Hillary Clinton vincitrice al 90% delle probabilità.
Alla luce delle tante crisi che scuotono gli USA, ci saremmo forse aspettati più audacia e coraggio nelle proposte dei Democratici: qualcosa che si distaccasse dalla politica trumpiana anche dal punto di vista ideologico. Nonostante Biden sia a favore dell’integrazione di un sistema di salute pubblica, che vada a potenziare l’Affordable Care Act di Obama, nonostante proponga di cancellare il debito studentesco e rendere l’università accessibile anche ai meno abbienti, restano ambigui i suoi piani per la politica economica e l’ordine pubblico (qualcuno insinua: per non allarmare l’elettorato e soprattutto le banche). E sebbene il dibattito tra i vicepresidenti Kamala Harris e Mike Pence, tenutosi il 7 ottobre, abbia lasciato più spazio al confronto civile, le perplessità restano. Anche in quella sede, infatti, più che i programmi erano andate in scena le accuse reciproche di riportare opinioni e non fatti. L’incontro è stato costellato da smentite, richieste alla trasparenza, continui richiami di attenersi ai fatti. Entrambe le parti hanno affermato più volte di essere le sole detentrici della verità.
Subito dopo gli incontri, moltissima stampa si è occupata di sottoporre a fact-checking le affermazioni di Biden/Harris e Trump/Pence. Una pratica sana e democratica che offre un po’ la misura della trasparenza invocata con così tanta forza in sede di dibattito. La claim on truth, la pretesa di verità, sembra essere l’unica vera linea d’attacco di Repubblicani e Democratici. In questa pretesa, però, si nasconde il pericolo: da un lato, l’impossibilità di un confronto che sia autentico, dall’altro la fatica sempre più grande che si fa a distinguere l’esigenza politica reale dallo spettacolo farsesco offerto a telecamere accese. La vittoria di Biden, specialmente dopo il delirante eloquio del Presidente in carica, è l’auspicio di un’America stanca, che si aggrappa alla speranza del meno peggio.