Sebbene sia un diritto di fondamentale importanza, la libertà di parola sta perdendo la sua incisività, ormai divenuta l’alibi preferito di qualunque malintenzionato che navighi sul web. Si tratta di un diritto civile e umano, garanzia della sopravvivenza delle democrazie, spesso al centro del dibattito per l’abuso che se ne fa come scusa per agire in malafede, diffondere odio e fake news sperando di restare impuniti. È infatti divenuta consuetudine gridare allo scandalo e alla censura ogni qualvolta un’azione o un’affermazione ritenute false, offensive o scorrette vengano limitate nella loro diffusione, come è recentemente accaduto agli account di Donald Trump in seguito alle sue dichiarazioni in merito al COVID-19.
Una volta dimesso dall’ospedale, finalmente convinto di sapere tutto sull’infezione solo per aver stranamente contratto il virus, il Presidente americano ha sfruttato i suoi amati social network per diffondere le proprie personali conclusioni sulla gravità dell’influenza cinese che sta infettando il mondo. Le dichiarazioni sulla presunta immunità dei bambini – che, più che lontane dall’evidenza scientifica, si sono rivelate completamente false – hanno allarmato Facebook e Twitter, che hanno eliminato i post incriminati dicendosi preoccupati della disinformazione che Trump stava diffondendo. E, come c’era da aspettarsi, le indignate accuse di censura sono esplose in pochissimo tempo.
Non è certamente la prima volta che i social vengono accusati di censura, di parzialità o di faziosità. D’altro canto, è quasi impossibile imbattersi in media del tutto neutrali: in televisione le dichiarazioni considerate illecite o inappropriate non si mandano certamente in onda, e sui giornali non compaiono frequentemente argomentazioni a favore di opinioni non condivise dalla linea della redazione. Ma non si tratta di censura purché non si diffondano fake news o notizie distorte a favore del proprio punto di vista. Purché, insomma, si rispetti la verità. Quando la situazione si sposta sui social media, però, l’opinione pubblica in merito cambia, perché se tutti possono accedervi, utilizzarli come piattaforma di lancio per le proprie opinioni, allora tutti sono anche potenzialmente bannabili. Dunque, se il timore di restare vittime della tirannia del web è tanto condiviso, è bene comprendere il reale significato del termine censura e la non trascurabile differenza tra opinione e disinformazione.
Se la censura ci fa tanta paura è forse perché ha fatto parte del nostro recente passato, diventando lo strumento dei regimi dittatoriali che ci hanno preceduto, e perché fa parte del presente di molti Paesi vittime dalle inclinazioni molto meno liberali delle nostre. La censura, quella vera, consiste nel controllo sistematico della comunicazione tanto di personaggi in vista quanto dei privati cittadini. È fatta di controllo preventivo, di distorsione della verità in favore delle politiche del regime e, sì, anche di eliminazione delle opinioni quando rappresentano l’espressione del dissenso.
Proprio in questi giorni, a Hong Kong, i post-it che decorano la città con frasi di supporto alle manifestazioni che rivendicano la libertà sono stati rimossi dalle autorità per ordine di Pechino. E, in Turchia, il governo censura numerosi giornali e chiude pagine web contenenti notizie di interesse pubblico riguardanti il COVID e la gestione delle risorse pubbliche. È in questi luoghi e con queste modalità che viene messa in atto un’opera di controllo, ma questo tipo di attività non riguarda i social media di cui tutti fanno uso all’interno delle democrazie. Anzi, il problema, al giorno d’oggi, nasce quando dichiarazioni false e potenzialmente pericolose vengono vendute come opinioni, sperando che con questa definizione si rivelino intoccabili.
Quando su Instagram o su Facebook ci si imbatte in un contenuto ritenuto offensivo, discriminatorio o pericoloso, si è lieti di poter ricorrere alle segnalazioni alle autorità competenti. Affermazioni offensive, bullismo, incitamento all’odio o alla violenza, tutti comportamenti considerati pericolosi e che rischiano di normalizzare o giustificare ulteriori comportamenti scorretti. Chi definirebbe censura la campagna portata avanti per cancellare i video di coloro che sfidavano i propri follower a guidare ad altissima velocità? Chi farebbe appello alla libertà di parola quando vengono eliminati i commenti degli impuniti cyberbulli? Nessuno, ovviamente, perché in questi casi non si mette in discussione la pericolosità dei contenuti.
La libertà di espressione, però, non dovrebbe essere una copertura per la disinformazione utile alla propaganda. Quando Donald Trump twitta di lasciar liberi i bambini perché tanto sono immuni al COVID-19, di non indossare i dispositivi di protezione perché quella che ha causato più di 212mila morti in tutti gli USA è solo una semplice influenza, quando si toglie la mascherina davanti ai giornalisti nonostante sia risultato positivo solo pochi giorni prima, in tutti questi casi nascono due questioni che non hanno niente a che fare con la censura, ma che si rivelano incredibilmente pericolose. Quando qualcuno fa dichiarazioni sulla pandemia che siano dedotte dalla propria osservazione personale o basate sulle proprie opinioni, sta diffondendo disinformazione perché le affermazioni mediche devono essere fondate su evidenze scientifiche. Già in casi di normalità, tale disinformazione andrebbe smascherata, a causa delle sue potenzialità pericolose. Se poi a fare dichiarazioni del genere non è una persona qualunque, ma una figura istituzionale di tale rilievo, il problema si gonfia fino a esplodere.
Donald Trump non parla mai in quanto Donald Trump, in quanto persona o singolo cittadino. Le sue parole sono pronunciate da Presidente degli Stati Uniti, una figura istituzionale considerata autorevole da milioni di persone. Proprio lui, che attiva l’allarme fake news ogni volta che qualcuno gli fa una domanda scomoda, e proprio lui che secondo le recenti ricerche del Washington Post ha detto più di 20mila menzogne al popolo americano, non può permettersi di diffondere disinformazione.
Se i cittadini non possono fidarsi neanche delle dichiarazioni delle istituzioni, è difficile che possano prenderne sul serio i provvedimenti o le decisioni. E se la censura, messa in atto fin troppo spesso nel corso della storia umana, diventa l’arma di difesa di chi spera di vendere le fake news come opinioni e le opinioni come verità assolute, non sorprende che i cittadini siano confusi, finiscano per credere alle bufale e a non credere alle evidenze. Usare la sacrosanta libertà di parola come giustificazione per gli errori che rischiano di costare la vita alle persone è un gioco pericoloso che non dovrebbero fare i media, figuriamoci i politici in posizioni di potere.