Giuliano Amato. Carlo Azeglio Ciampi. Silvio Berlusconi. Lamberto Dini. Romano Prodi. Massimo D’Alema. Giuliano Amato. Silvio Berlusconi. Romano Prodi. Silvio Berlusconi. Mario Monti. Enrico Letta. Matteo Renzi. Paolo Gentiloni. Giuseppe Conte. Giuseppe Conte Bis. Mario Draghi.
’A disgrazzia, la sfortuna. Nella Smorfia napoletana, diciassette non è un buon numero. E, in fondo, non lo è nemmeno nella mia vita. Diciassette, infatti, è il numero dei Presidenti del Consiglio che si sono alternati a Palazzo Chigi dall’estate del 1992, l’anno della mia nascita. Sette soltanto negli ultimi dieci anni. Più o meno da quando ho iniziato a votare.
Destra, sinistra, centro, tecnici, esperti, traghettatori, migliori. Li ho visti tutti e tutti hanno dato un indirizzo preciso alla mia vita, alla vita di quei coetanei che, come me, si guardano attorno attoniti, stanchi, con le borse sotto gli occhi per le tante notti insonni a cercare una soluzione.
Ci chiamano la generazione Y, i millenials, quelli nati tra gli anni Ottanta e i Duemila. Ben dopo il boom economico, ma fin troppo dentro la recessione. A cavallo tra due mondi, insomma. Eppure, rifiutati da entrambi. Per l’uno non siamo abbastanza; per l’altro non siamo e basta. Al primo viene comunemente associata l’età del benessere. Sono gli anni di formazione dei nostri genitori, la prima generazione a stare meglio di chi l’ha preceduta. Anche l’ultima direi. È la generazione del posto fisso, quella nata e cresciuta con valori a noi tramandati nella promessa di un futuro che poi non è stato.
Il secondo è il mondo della globalizzazione. Quello delle merci libere e degli uomini in catene. I no global lo avevano predetto, forse è per questo che li hanno messi a tacere. È il mondo per come lo vediamo oggi, nella forma incipiente di quello che sarà poco prima dell’implosione. È il mondo per il quale siamo troppo giovani per trattarci da adulti e troppo vecchi per avere anche solo qualche possibilità di diventarlo per davvero adulti. Casa, famiglia, lavoro: ci era stato promesso tutto e niente è quello che abbiamo.
Se guardo a me e a chi, come me, compirà o ha compiuto trent’anni in questi mesi, provo un misto tra delusione e tenerezza, tra desiderio e compassione. L’orgoglio di chi le prova tutte e l’insoddisfazione di chi teme di non ottenerne nemmeno una. Ci guardo e mi chiedo dove saremo tra vent’anni, quando la nostra età anagrafica pretenderà una certa realizzazione e noi ancora saremo a domandarci se e perché non ci siamo riusciti. Ce ne faremo una colpa, proprio come facciamo già adesso. La generazione dell’ansia. Gli infelici. Gli sdraiati. Se fossimo in un film americano, almeno lo saremmo sul lettino dello psicanalista, e non nella stanzetta voluta da mamma e papà.
Siamo la generazione del non è mai abbastanza, quella del se-vuoi-puoi ma se-non-ce-la-fai-il-fallito-sei-tu. Ma che colpa ne abbiamo, noi, se in trent’anni diciassette Presidenti del Consiglio ci hanno impoverito, nelle tasche e nei sogni; se, in diciassette, hanno fatto di milioni l’elogio della precarietà? Precari nelle emozioni, precari nel corpo, precari nella testa, precari nel lavoro, precari nei sentimenti. Precari nella costruzione di un io che è sempre quello che vuole qualcun altro.
Scrivo questo sfogo mentre la tv è accesa. Seguo con apprensione, ma forse nemmeno troppa – tanto ci stiamo abituando –, quanto sta succedendo nel Paese. Mario Draghi che rassegna le dimissioni, Sergio Mattarella che rimanda alle Camere, la chat di redazione che impazzisce e si interroga.
Ragazzi, ma è caduto il governo?
L’estate italiana non è mai noiosa.
Io, boh, non sto capendo più niente.
Questo paese è rotto, malato, sempre più povero. Finché non parte un’azione collettiva, dei cittadini, finché non ci movimentiamo noi, buonanotte.
Io non so più quanto ancora possiamo cadere in basso.
Ah, si può?
Che stiamo aspettando?
Le mobilitazioni devono avere una solidità politica alle spalle. Ma a chi ci affidiamo noi?
Il problema è che fino a che ci ribelliamo con gli hashtag non cambierà mai nulla.
Sembra una frase fatta ma, perdonatemi, facciamo un altro governo per far governare sempre gli stessi? Cambiamo sempre tutto per non cambiare mai?
Ci fosse un’altra Genova, vorrei vedere se non cambia niente…
Ma un’altra Genova in Italia non te la fanno fa’…
Io non lo so l’Italia perché non si scoccia mai. Siamo tutti schifati… tutti… da destra a sinistra… però votiamo sempre gli stessi.
Siamo l’immagine della sindrome di Stoccolma… facciamo il tifo per la squadra avversaria.
L’idea di un governo Meloni mi fa accapponare la pelle.
Con la storia del meno peggio, il PD è quello che ha fatto gli accordi con la Libia, che ha promulgato il Jobs Act, abbiamo avuto Minniti, che non ha votato mai lo Ius Soli… scusate, ma più di così? O dobbiamo accontentarci di questo perché Meloni farebbe pure peggio?
L’unica cosa che so è che a trent’anni ho visto chiunque alternarsi da quelle parti e mi ritrovo a non avere niente, a non poter immaginare il futuro perché non ho nemmeno un presente su cui costruire. Penso che sia questo che dovremmo fare noi, la nostra generazione in primis, pretendere di esistere e non elemosinare per sopravvivere.
E come lo facciamo?
Forse è il momento che diventiamo un po’ più adulti. Visto che la società non ci considera tali, diventiamolo noi e basta. Quelli di prima ci hanno tradito, quelli di dopo aspettano, siamo noi a dover agire adesso. Perché siamo noi a non avere niente e niente da perdere.
Niente da perdere. Mentre lo scrivo, divento triste. E, secondo me, anche gli altri che mi leggono. Perché ce lo diciamo spesso: in riunione, in confidenza, sottovoce, urlandolo. Sentiamo di non avere; ancora di più, sentiamo di non essere. Eppure siamo. Eppure abbiamo. Sogni. Competenze. Ideali. Fame. Siamo e abbiamo fame. Siamo e abbiamo sogni. Siamo e abbiamo competenze. Siamo e abbiamo ideali. Però è tosta. Così tosta che, a volte, ci manca l’aria. Annaspiamo, ci rassegniamo, ci arrabbiamo. Più con noi stessi che con gli altri, più con i nostri fallimenti che con i veri falliti.
Trent’anni e diciassette Premier. Trent’anni e Falcone e Borsellino. Trent’anni e Genova. Trent’anni e le Torri Gemelle. Trent’anni e la crisi. Trent’anni e il tempo determinato. L’esperienza. Trent’anni e la pandemia. Trent’anni e la guerra. Il cambiamento climatico. La sensazione di collasso imminente. L’isolamento. La paura. Le paure. E l’acqua che sale, e il tempo che passa, e i braccioli che non ne vogliono sapere di non venire al mare con noi.
Giuliano Amato. Carlo Azeglio Ciampi. Silvio Berlusconi. Lamberto Dini. Romano Prodi. Massimo D’Alema. Giuliano Amato. Silvio Berlusconi. Romano Prodi. Silvio Berlusconi. Mario Monti. Enrico Letta. Matteo Renzi. Paolo Gentiloni. Giuseppe Conte. Giuseppe Conte Bis. Mario Draghi.
Diciassette. Diciassette nomi a rappresentanza di un sistema. Milioni di trentenni a cui tocca sovvertirlo. Andiamo a nuotare.