Questo scritto nasce da un dialogo con il cantatore Marcello Colasurdo. Esso si è svolto a Napoli, nell’antico borgo Sant’Antuono, a un quarto piano cui si accede dopo un’intensa scala a spirale, un po’ a forma di punto interrogativo. In genere, di un colloquio restano nella mente dei due interlocutori il come dico più che il ciò che dico. Le frasi, in questo caso, si riducono a qualche sillaba perché uno dei due ha utilizzato come modalità comunicativa il sistema dei gesti e i vocalizzi. Il resoconto potrebbe benissimo essere un ghirigoro sonoro. Sarebbe stato, altresì, interessante fornire elementi sulle agitazioni del cantore. Mi riferisco proprio alla gestualità, al muoversi degli occhi, ai molti melismi improvvisati da Colasurdo. Come fare? Avrei dovuto aprire nel discorso diretto decine di parentesi illustrative di questa gestualità. E con il canto come la mettiamo? Ricordo con accuratezza un uomo sui sessant’anni, vestito di nero, corpulento e con i capelli lunghi, attratto verso terra dal peso del suo peso, la cui ritualità nativa consisteva nel toccare gli occhi con le palme aperte, come per asciugarli, muovendo le mani verso il basso, fare lo stesso ma con moto contrario, sullo stomaco (come per portar fuori, partorire); muovere in senso rotatorio le braccia; posizionare il palmo a conchiglia sull’orecchio per amplificare non ciò che diceva ma ciò che ascoltava. Talvolta, preda di un’euforia cinetica, si alzava, si sedeva, si rialzava ed era un po’ complicato riportarlo al continuum dell’argomento discusso. Colasurdo ha usato raramente il pronome io né una sola volta si è toccato il petto come a sottolineare meccanicamente la propria individualità e il proprio corpo. La voce, sì: ha cercato inconsapevolmente di afferrarla diluendola in un moto che ripeteva, allungava, estendeva il melisma.
Ritengo tutto ciò non di poco conto ai fini della veridicità del personaggio e, dunque, dell’attendibilità delle sue testimonianze. Tale veridicità è oggi difficile da riscontrare in altri operatori del settore, anche molto noti, che non hanno più radici nella tradizione. In tal senso, De Simone vide giusto: la tradizione è morta. Colasurdo, che pur vive di spettacolo, lo si incontra in tutte le feste del popolo dei tamburi mischiato con il sottoproletariato, sia esso una paranza di zingari sia esso un tir adattato a palcoscenico (una specie di carro di Tespi). Credo, altresì, che il suo sentiment sia coerente con le mappe-territori e gli schemi elaborati da Neumann sia per La Grande Madre che per Storia delle origini della coscienza. Ovviamente, Neumann è qui citato come mossiere di una possibile indagine in un campo non clinico, sul vissuto quotidiano e su un modo di pensare collettivo, ancestrale e perturbante, utile per un’eventuale terapia attraverso la potenza delle immagini-tipo, estensibili alla stessa poesia elaborata da una mente orale, dunque pre-analitica. L’intervista è stata strutturata in modo da verificare se e come gli elementi dell’esperienza, conscia o meno, hanno agito sulle scelte del cantatore e se e come il cantatore sa quello che fa e perché lo fa.
Colasurdo era analfabeta, fondamentalmente illetterato nonché musicalmente autodidatta (la terra è il pentagramma. Le cose sono le note). Gli elementi eventualmente rilevabili per un approfondimento sono sempre il risultato di sue personali deduzioni e intuizioni. È tuttavia importante il clima, storico e culturale, tradizionale, nel quale esse avvengono e che avalla come corretto (giusto, in quanto riscontrabile nelle modalità cognitive del gruppo di appartenenza che le condivide) il suo modo di pensare. In sostanza, ritengo di poter dire che Colasurdo utilizzi modalità analogiche e prelogiche: basta che un’immagine abbia un suo plausibile collegamento con un’altra (ad esempio, S. Antuono ed Ermes, ambedue come psicopompi degli inferi) per assumere, indipendentemente da questioni di storia del senso e dell’iter della tradizione, un valore esemplare.
Questo metodo che si può definire naturale è fondato comunque su una verità epistemologica e scientifica, come vari studi hanno dimostrato, e fa sì che una percezione (anche quella di uno psicotico) sia verità e spesso anche realtà se quadra all’interno dei simboli (ma sarebbe più pertinente dire che tutto s’accerchia). Ciò, per quanto contestualizzato nel mondo dei tamburi, è certamente d’interesse per l’originarietà delle visioni. Posso altresì affermare che, a tratti, la teoria della mente bicamerale di Jaynes trova in Colasurdo un testimone, anche se non informato dei fatti. Non dubito, infatti, che, nei momenti in cui Marcello smetteva di discorrere e attaccava, ex abrupto, con il canto e la gestualità, stesse in effetti rispondendo (gli occhi fissi e roteanti) a un’allucinazione uditiva e familiare proveniente dal suo interno o – è lo stesso – dovuta alla visualizzazione di una situazione in un ricordo atemporale che lo spingeva all’azione mimetica. Accade per lui ciò che accadde, su sua testimonianza, per Peppinella Mezacummara, esperienza qui riportata.
Le cose trascritte in italiano, per uno che si esprime in partenopeo, hanno un valore modesto. Riporto sotto forma di auto-racconto gli appunti rispettando i ponti mentali di Marcello e, poiché ogni comunicazione ha un obiettivo di influenzamento, ho lasciato, influenzato, che i miei pensieri e le esplicitazioni non seguissero un registro giornalistico (intervista), indagatore (interrogatorio) o sociologico (inchiesta), ma si contaminassero con quelli di Marcello, in una specie di doppio monologo interiore.
«[…] La mia era una ragazza madre. Sono cresciuto prima in orfanotrofio e poi in quella famiglia allargata che, a Pomigliano d’Arco, era il cortile di Vico della Pigna. Lì, in quell’abbraccio di mura scauciate, tutto era in comune, anche la fisiologia. Ho vissuto in tribù fino ai 19 anni. Eravamo tutti parenti, non necessariamente di sangue. In quel cerchio chi comandava e gestiva la vita erano le donne, tutte chiamate zie, cummare, in un intreccio un po’ sacrale. Mammane e mammoni. Erano come le leonesse o altri animali che provvedono anche ai cuccioli degli altri. La sera, quando volevo uscire un po’ con i miei amici, mia madre non diceva ritirati presto ma accuogliete ampressa. L’accuogliersi, il raccogliersi, è dei fiori quando si chiudono o quando una mano li raccoglie. In italiano sarebbe forse ritrovati presto, come se l’andare fuori dal cerchio del cortile e dal territorio dominato e protetto dal gruppo significasse poter perdere le coordinate mentali rischiando l’errare, nel doppio significato di sbagliare e di vagare. Un’altra frase che ricordo è: accoglietevi in seno al cortile. Che volevano dire mia madre e le zie? Cos’era quel seno del cortile? Lo dicevano muovendo le mani a cerchio, come radunando foglie, portandole poi alla pancia, dove le mani restavano intrecciate e in riposo. Fuori, in campagna, gli alberi, che in qualche lingua sono di genere femminile, avrebbero voluto forse fare lo stesso con le loro foglie e semi… Lì, alla Pigna – e a volte ho nelle narici, proveniente da chissà dove, l’odore d’incenso che regalano le pigne sul fuoco, lo stesso afrore del turibolo – la morte e la nascita erano come il respiro, nel senso che il cerchio e il seno continuavano il proprio ciclo per nulla interrotto e anzi gemellare con quello della nascita e della morte. Il morto veniva messo nel tavuto, in quella ù oscura e profonda, insieme con il grano, il vino, in comunione con la terra. Certo, si gridava per il dolore ma, anche, si intonavano canti amari come le fronde del limone e il lutto veniva gestito tutti insieme, cantando le gesta del defunto, gesta piccole ma epiche in rapporto al lavoro dei campi. Erano, i morti, gli eroi minimi dei solchi e delle gelate, con un cursus di vita non discrezionale ma previsto e prescritto, come le stagioni. La donna è animale stagionale, soggetto a mutamento. È corpo. La transustanziazione del latte in sangue e l’arcano del latte che dà nutrimento (un corpo che nutre un altro corpo) avevano qualcosa di terribile. Terribile, come si sa, deriva da terra. Il mistero della trasformazione corporale veniva cantato con un ritornello sul soma del defunto: benedico il latte che ti ho dato/ tutto dai miei capezzoli/ con quella bocca muta lo hai succhiato/ prendilo nel giardino (paradiso, cimitero) insieme agli altri (non restare solo).
Fu così che il canto divenne per me qualcosa di pietra, di brecciume, monumentale come chi avrebbe voluto ridare al defunto una voce di marmo, edificare un’icona sonora. Un altro di questi geroglifici nella nostra chiesa-cortile era, ad esempio: ti benedico tutta l’acqua/ tutta col secchio l’acqua ho trasportato/ il mare l’ho seccato. C’è, sempre, una benedizione. Da bambino mi parlavano al catechismo di un pensoso Sant’Agostino che incontrò un angelo in riva al mare e che gli disse parole più o meno uguali a quelle della fronna che ho abbozzato: … fai prima a prosciugare il mare con un secchiello che a conoscere il mistero di Dio. Quest’angelo, maschio e femmina, una contaminazione di generi, era forse per Agostino ciò che per me è la sirena. Il cortile era sempre bagnato e a volte avevo l’impressione che le zie (gli uomini no, erano taciturni, asciutti) parlando e borbottando facessero cadere acqua dalle loro bocche.
Poi c’era il momento del fuoco, entusiastico, a Sant’Antuono. Qui siamo nell’antico borgo di Napoli, a due passi da Porta Capuana e Porta San Gennaro. In effetti anche questo è un cortile, un po’ più grande di quello di Vico della Pigna. La sera, ricordo le stelle quasi attratte dal nostro canto rotatorio e le vedevo specchiarsi nel lavaturo odoroso di lisciva (sapone fatto con la cenere bollita). Insomma, il cortile per noi era il nostro stesso abbraccio, la grande madre. Da quel cerchio sono giunto a quello delle tammurriate. Quello che so, cioè il perché di alcune cose, l’ho appreso direttamente dai sacerdoti della tradizione, zingari o fuienti o cantatori-druidi con i quali mi identifico. Ho saputo così che anche Davide era un pastore, che onorò il suo dio danzando nudo e suonando il tamburo. Viene dunque prima il pastore e poi il re e poi il Cristo. La continuità di queste Figure mi rende incomprensibili gli atteggiamenti di alcuni uomini di Chiesa, per esempio quello di padre Tarcisio, del monastero di Montevergine, dove da secoli nel giorno della Candelora avvengono feste sacre, in continuità con quelle dei Coribanti. Occorre mettersi d’accordo su cos’è il sacro. Il nostro sacro non è più sacro di quello degli altri (sarebbe impossibile) ma è certamente più antico e può vantare una maggiore legittimità.
[…] continua