Tra miseria della subalternità e presunta nobiltà golpista, chi è più marcio in Venezuela? Chissà, magari nessuno, magari non c’è nulla di losco. Di sicuro, però, c’è tantissimo petrolio e il primo importatore netto di greggio nel Paese è rappresentato dagli Stati Uniti.
Sarebbe sufficiente anche solo questa breve e netta considerazione per provare a comprendere quel che sta succedendo in quell’avamposto d’Italia nel mondo che si chiama, appunto, Venezuela ovvero piccola Venezia.
Eh sì, perché di italiani, per nascita o per discendenza, nel Paese sudamericano ce ne sono molti: rappresentano, infatti, la più grande comunità estera dell’intera nazione e ne costituiscono da sempre l’élite economica. Per un certo periodo, inoltre, ne hanno costituito anche quella politica, fino all’ascesa di Ugo Chavez e del chavismo che oggi prosegue, seppur tra sommosse e scontri, con le nazionalizzazioni di Nicolas Maduro, nei confronti del quale è evidentemente partita l’operazione di definitiva destabilizzazione finalizzata a ottenerne la completa capitolazione con la conseguente riconquista dello Stato da parte della casta italo-atlantista.
Quella a cui stiamo assistendo è infatti, con ogni probabilità, l’ultima fase del piano di guerra spuria combattuta infiltrandosi tra le fila di cittadini inermi e ridotti in miseria di una nazione sottoposta a embarghi forzati e sanzioni sulle esportazioni di greggio a cui nessuno si è opposto nella sede di un’ONU a guida Stati Uniti, i quali potranno in tal modo guardarsi bene dal munire eserciti configuranti situazioni di indebita, potenziale invasione, il tutto condito e servito sul piatto d’argento della ribellione social-democraticamente artefatta di un laureato presso la George Washington University che risponde al nome di Juan Guaidó – uomo dell’establishment americano, sostenuto dalla CIA –, il quale si è rivolto all’esercito del proprio Paese chiedendone la disobbedienza costituzionale ma ricevendo, almeno per ora, una risposta piuttosto deludente.
Siamo dunque di fronte allo scontro eclatante tra la miseria delle classi subalterne rappresentate dall’erede diretto di Chavez contro quelle dominanti interessate a tornare in possesso esclusivo delle risorse energetiche e finanziarie dello Stato da cui sono state finora tenute fuori, o a bada, attraverso le politiche di statalizzazione finalizzate a garantire punti di partenza uguali per tutti e a gestire i meccanismi di finanza pubblica in chiave collettiva attraverso il controllo diretto dell’istituto di credito nazionale con tutte le politiche inflattive e/o deflattive legate all’emissione monetaria che ne possono derivare.
Ma quando questo avviene, ovvero quando la storia prova a muoversi dal basso verso l’alto, c’è sempre chi è pronto a gridare al regime e al liberticidio, come se le libertà fondamentali dell’uomo dovessero sempre e solo essere nella disponibilità di chi può permettersele. E, invece no, le vicende umane, di tanto in tanto, sono attraversate anche da chi riesce a trovare il coraggio per opporsi a una tale visione e per questo viene dipinto come usurpatore prima e ucciso poi, talvolta non solo politicamente.
Esistono uomini che non combattono per essere liberi, ma poiché ritengono di esserlo e dunque lottano per restare tali. Oggi i venezuelani paiono riprendersi il loro Paese e con esso la loro libertà. Ma chi sono i venezuelani liberi? Quelli che lottano per diventarlo al seguito del neo-comandante Juan Guaidó o quelli che lo fanno perché già lo sono e combattono per restare tali sotto l’ala protettiva del regime di Nicolas Maduro? E l’Italia, in tutto ciò, da che parte sta?
Lo Stivale, come al solito, è diviso ed è proprio la questione libica a giocare un ruolo dirimente in questa vicenda. Venezuela e Libia, due nazioni così distanti geograficamente eppure vicinissime sul piano strategico rispetto a quelle che saranno le scelte che il nostro Paese è chiamato a compiere sul piano dell’opportunità politica e della propria convenienza economica.
Già, perché Trump è stato chiaro nel ricordare alla più fedele delle sue colonie dell’intero bacino del Mediterraneo, cioè l’Italia, che in cambio di una mano in Libia, dove i pozzi dell’ENI sono soggetti a evidente rischio usurpazione da parte di Total per effetto degli attacchi militari del generale filo-francese Haftar, è chiamata a riconoscere senza se e senza ma la legittimità delle pretese avanzate da parte di Guaidó. Lo scopo sarebbe quello di sostenere la componente italiana e ricondurre così il Paese sotto l’egida protettiva dello Zio Sam e delle sue mire espansionistiche in funzione anti-cinese e anti-russa.
Che gli Stati Uniti considerino da sempre il continente latinoamericano come il proprio connaturato cortile di casa è infatti risaputo, ma che i latini abbiano voglia di continuare a essere considerati tali non è da dare per scontato, anzi è verosimile che questa situazione stia loro storicamente molto stretta e sia la Russia che, ormai, la Cina con le sue nuove vie della seta lo sanno molto bene.
Da qui, i loro tentativi di intervento a favore del Presidente Maduro che, giunto a scadenza naturale del proprio mandato popolare, attendeva di poter indire nuove elezioni. Evidentemente, però, è stato anticipato da altri disegni di intromissione imperialistica fino al punto di essersi visto persino negare la possibilità di rientrare in possesso di parte delle riserve auree venezuelane detenute presso istituti di credito collegati alla Banca Centrale del Regno Unito, il quale ha bloccato il trasferimento dell’oro di Caracas poiché, a suo dire, tale restituzione non sarebbe avvenuta a favore del popolo venezuelano, ma a vantaggio del regime che lo opprime. Una banca, dunque, che fa la morale a un governo che, per quanto discutibile, è pur sempre legittimo: siamo evidentemente al più delirante tra i paradossi in un mondo in cui ormai più nessuno si chiede cosa sia rapinare una banca a paragone del fondarne una.
La partita è ingarbugliata e lo scacchiere su cui si gioca è molto più ampio di quanto non appaia. I giocatori sono forze telluriche capaci di sconvolgere gli equilibri geopolitici dell’intero pianeta e pur di agire in difesa dei propri interessi e delle proprie prospettive strategiche potrebbero essere potenzialmente disposti a tutto. Questo è quello che dovrebbe maggiormente preoccuparci e aiutarci a ragionare su come orientare il nostro atteggiamento in chiave tattica, allo scopo di provare ad agganciare le nostre sorti a quella che potrebbe venire a configurarsi come la parte giusta della storia.
Tutto, ovviamente, in un’ottica di recupero di quella che dovrebbe essere la naturale vocazione di un Paese come il nostro, collocato al centro del Mediterraneo, fisiologicamente chiamato ad avviare un percorso di rinascita capace di mettere in comune non una moneta, ma una Costituzione (mediterranea) tramite la quale sostenere i principi di una sinistra che non si accontenti del recente colpo di coda spagnolo ottenuto a seguito dell’ultima tornata elettorale casalinga da parte del PSOE, ma che sia in grado di difendere le aspettative di emancipazione di Paesi consapevolmente e coraggiosamente disallineati rispetto al coro univoco delle sirene filo-atlantiche che, replicando la voce del padrone, continuano a dire sì alla miseria della servitù e no alla nobiltà del sacrificio finalizzato alla propria autodeterminazione.
Yo soy (siempre) Maduro, ¿y tú?