Da tempo, l’Italia arretra sul piano della tutela dei diritti attraverso i suoi esponenti politici e, di solito, lo fa con grande acclamazione dei più. Appena pochi giorni fa, ad esempio, Matteo Salvini è stato ospite del Congresso Nazionale del Sindacato Autonomo della Polizia e, per l’occasione, ha ribadito che, dovesse tornare al governo, abolirebbe il reato di tortura perché, a suo dire, la polizia deve essere libera di lavorare.
Di certo, il leader della Lega non è nuovo a queste esternazioni e nei mesi scorsi si è già più volte schierato dalla parte degli agenti di polizia penitenziaria accusati, sia a Torino che a San Gimignano, di tortura a danno di detenuti per i quali il fascicolo d’indagini è ancora aperto. E oltre alle foto che esprimono solidarietà a quelli che Salvini definisce padri di famiglia privati ingiustamente del loro stipendio, come se avesse la certezza assoluta della loro innocenza, e che minano all’imparzialità che, per legge, gli agenti della polizia penitenziaria dovrebbero mantenere, ci sono dichiarazioni ben più gravi. L’ex Ministro degli Interni ha affermato, infatti, che la parola di un detenuto o di un delinquente non può valere quanto quella di un uomo o una donna in divisa, come se fosse la divisa stessa ad attribuire a tali persone un’aureola di santità che le esonera dal loro obbligo di rispettare gli altri in quanto esseri umani. E, invece, chi è detenuto, oltre a essere privato della propria libertà, è spogliato anche della propria credibilità soltanto perché può aver sbagliato, le sue parole sono meno attendibili di quelle di chiunque altro.
Ricordiamo che, già nel 2015, prima che il ddl sul reato di tortura diventasse legge, il leader padano aveva preso parte alla manifestazione indetta dal sindacato di polizia contro la sua conversione, affermando che idiozie come questa legge espongono le forze dell’ordine al ricatto dei delinquenti. La norma, però, non dovrebbe preoccupare chi indossa la divisa e lavora in maniera corretta, eppure nessuno si è sentito offeso dalle ultime promesse di Salvini, anzi tutti hanno salutato con favore tale possibilità. Come se il reato di tortura non fosse necessario per evitare gli abusi che troppo spesso sono sotto i nostri occhi e che hanno condotto ad atrocità come quella commessa sulla pelle di Stefano Cucchi.
E l’affermazione, sempre salviniana, per cui se devo prendere per il collo un delinquente lo faccio, non fa altro che giustificare nell’opinione pubblica quel retropensiero per cui chi finisce in carcere è dotato di minore dignità rispetto a qualsiasi altro essere umano, che le sue affermazioni hanno meno credibilità e che piccoli buffetti e sbeffeggiamenti – o peggio – non vanno considerati abusi di potere.
Ma se da Salvini ci si può aspettare una regressione in tale ambito, più stupore ha destato la proposta formulata dall’attuale maggioranza che è stata definita da molti giallorossa, anche se di rosso ha mostrato di avere ben poco. È infatti vicina all’approvazione una legge che rafforzerà i poteri della polizia penitenziaria, a discapito di quelli del direttore del carcere che sarà così privato del suo ruolo di garante e punto d’equilibrio tra le varie anime della realtà carceraria. Il direttore è infatti soggetto terzo perché non appartenente né all’area trattamentale né a quella di sicurezza, permettendo così di mediare tra le varie funzioni che la pena deve perseguire in base al nostro ordinamento, innanzitutto rieducativa per il soggetto privato della libertà e di sicurezza per la collettività, per chi è recluso e per chi in carcere ci lavora.
Il comandante di polizia penitenziaria è la figura gerarchicamente più in alto dell’area della sicurezza ma è a sua volta gerarchicamente subordinato al direttore, cui spetta l’ultima parola in tema di uso delle armi all’interno del carcere e di potere disciplinare. Il progetto di riforma minerebbe a questo delicato equilibrio poiché il capo della polizia penitenziaria sarebbe dotato di poteri disciplinari e di controllo rispetto ai comportamenti della polizia penitenziaria e sarebbe in grado di decidere sull’uso delle armi all’interno del carcere, che ovviamente è la modalità organizzativa opposta a quella fisiologica. Due faccende delicate che non dovrebbero essere valutate da una sola delle anime dell’intera comunità carceraria, la quale è invece complessa e necessita di una profonda mediazione e di un giusto equilibrio.
Tutto ciò manifesta un evidente rischio, quello di uno scivolamento di tipo securitario, di una pericolosa regressione a un modello di carcere antecedente alla Costituzione, di mera custodia e polizia che getterebbe nel nulla tutti i piccoli passi in avanti fatti negli ultimi decenni, da quando negli anni Ottanta è stato scelto un modello detentivo che punti innanzitutto alla rieducazione e alla risocializzazione.
Ciò che appare chiaro è che, qualunque sia il colore politico della forza in campo, la richiesta incessante di sicurezza della collettività viene appagata attraverso una diminuzione delle tutele e dei diritti fondamentali, attraverso un inasprimento delle sanzioni e un uso ingiustificato della violenza – anche della tortura – che non fa altro che aumentare la sensazione di pericolo già largamente presente nel nostro Paese che poco corrisponde alla realtà. A mancare è un’impostazione culturale e ideologica che metta al centro l’uomo e che non sostituisca alla percezione di pericolo una percezione, anch’essa labile, di sicurezza e stabilità che non potrà essere ottenuta attraverso un rafforzamento dei poteri. Al contrario, non farebbe altro che ricondurre il sistema carcerario nell’oblio della pena come repressione e punizione spogliata di qualsiasi istanza rieducativa.