Ogni palestinese vive sulla propria pelle la politica israeliana di frammentazione dello spazio dal momento in cui nasce e fino alla morte. Gli israeliani non se ne occupano per deliberata ignoranza, per indifferenza e perché ne traggono vantaggio. Una caratteristica tipicamente israeliana: giustificare qualunque cosa con ragioni di sicurezza o con una promessa divina scritta nella Torah, oppure con entrambe. Ogni diplomatico dell’Unione europea e dell’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme riceve regolarmente rapporti su questo processo di frammentazione e sa che non è in alcun modo imputabile a ragioni di sicurezza. Ciononostante la litania dei paesi occidentali rimane «Israele ha il diritto di difendersi».
Non è ancora il 7 ottobre quando Amira Hass, tra le voci più critiche e intransigenti di Israele – da anni unica giornalista corrispondente dei territori occupati – scrive queste parole. Hamas non ha torturato, ucciso o rapito. Non in mondovisione, almeno, non al concerto che farà da spartiacque alla storia che stiamo per raccontare. Sono parole, quelle di Amira, che oggi hanno un’eco diversa. Soprattutto quando scrive di diritto alla difesa.
È il mese di settembre. Nelle librerie di Italia arriva il nuovo numero di The Passenger, la splendida collana di Iperborea dedita a raccontare il mondo tra geografia, storia, immagini e letteratura. È il numero dedicato alla Palestina, un volume che a sfogliarlo qualche mese dopo stratifica di tristezza il nostro sguardo. È il racconto di una Palestina che era e non è più, che avrebbe potuto essere e non è mai stata. Le bellissime fotografie che si alternano tra le pagine sembrano oggi testimonianza di un luogo che, per quanto disgraziato, ha avuto colore. Terra, volti, alberi, animali, edifici. Oggi è soltanto macerie e corpi martoriati.
Il piano per spezzettare e saccheggiare la Palestina va avanti da decenni, indipendentemente dall’orientamento dei governi israeliani e sotto gli occhi di tutto il mondo. È fatto di vessazioni quotidiane, leggi discriminatorie e tanti piccoli e grandi soprusi, giorno per giorno, anno per anno, con una tendenza al peggioramento.
E il peggioramento è quello che stiamo vivendo in queste settimane, quello che da lontano guardiamo con ferma partecipazione o con totale indifferenza. Al cessate il fuoco che sale anche sul palco di Sanremo risponde la medesima frase di allora: Israele ha il diritto di difendersi. Ma quale diritto? E quale difesa?
Ancora una volta, le parole di Amira Hass sembrano rispondere alle nostre domande: «Unisci i puntini per riconoscere il mostro». E i puntini, in questo volume, sono cronache di vite palestinesi: a Ramallah, a Gaza, a Gerusalemme, a Jenin, a Hebron, in Israele, nella diaspora. Raccontano modi diversi di vivere l’occupazione e di farvi resistenza. Storie di chi ha conosciuto quelle terre e ha dovuto lasciarle; storie di chi, invece, non ha mai avuto altrove. Molti custodiscono ancora la chiave della casa che fu. Era il 1948, era la Nakbah. Anche oggi qualcuno spera nel ritorno. Da immaginare il dove sta diventando più difficile del come. Sono le storie di coloro che probabilmente non ci sono già più. O, forse, si spingono adesso verso Rafah, sul confine egiziano. È difficile scrivere di questo libro senza chiedere conto delle vite qui eternate.
Il valico della città nel Sud della Striscia di Gaza è l’unico varco per la circolazione di persone e merci. In questi giorni, in queste ore, se ne parla perché Netanyahu ne ha ordinato l’evacuazione, minacciando un intervento militare via terra che andrebbe contro la decisione della Corte Internazionale di Giustizia: Israele, dicono, deve prendere tutte le misure per evitare atti di genocidio. Sono già morti 30mila palestinesi. 11500 bambini. A Rafah vivono due terzi della popolazione di Gaza, 1,4 milioni di persone, 600mila infanti. Non si sa dove si suppone che vadano, in Egitto forse, dove sempre più vengono spinti i sopravvissuti della Striscia.
Era molto presto, forse alle prime luci dell’alba. Sono salita sul taxi giallo, una Mercedes, con Andrés. Ho salutato Amal e Iman, le mie due sorelle. Ho abbracciato il mio nipotino Jamal, il figlio della più piccola, e gli ho regalato un libro di inglese: «Se vuoi trovare una via d’uscita» gli ho detto «impara questa lingua».
Attraverso Rafah passano le speranze di molti, anche di Asma’ al-Atawna, nata a Gaza e dal 2002 a Tolosa:
Vengo da uno dei posti più poveri e densamente popolati sulla faccia della terra. […] Sono nata in una notte gelida e piovosa. La levatrice che assisteva le partorienti nel nostro vicinato non è riuscita ad arrivare in tempo a causa della pioggia. Sono tracimate le acque di scarico, con tanto di escrementi, e ovunque c’era una puzza terribile. Quando sono venuta al mondo, non ho pianto subito e la levatrice temeva che fossi nata morta. Allora mi ha dato qualche colpetto sulla schiena e mi sono messa a strillare; magari fosse stata l’ultima volta che mi toccava piangere e strepitare.
Asma’ ha origini beduine. E sono proprio le comunità beduine palestinesi tra le più colpite dall’occupazione israeliana. Sono pastori, perlopiù, agricoltori. Hanno le mani sporche di una madre che Israele dice non essere la loro. Sembra quasi uno scherzo del destino: vivere di terra quando non se ne ha una. Ne sanno qualcosa le generazioni che si sono alternate nelle grotte di Masafer Yatta, un’area collinare al confine con la Linea verde, nella Cisgiordania meridionale: una dozzina di villaggi popolati da circa tremila persone ritrovatesi, di colpo, in una vera e propria zona di fuoco, la 918, concepita nel 1980 con l’intento non dichiarato di trasferire le terre agli invasori. Nel 2022 una sentenza definitiva della Corte suprema israeliana ha permesso lo sfollamento di più di mille persone e la distruzione di otto villaggi: la più grande espulsione di massa di cittadini palestinesi da decenni. Poi c’è stato il 7 ottobre.
Prima, però, ci sono state tante Nakbah, catastrofi personali che si riverberano nelle parole di chi scrive. Prima c’è stato il 1948, l’anno della fondazione dello Stato di Israele e la conseguente cacciata dei palestinesi. Prima ci sono stati accordi, promesse, poi sempre meno diritti: c’è chi ritrovandosi i coloni in casa rivive quel dramma ogni mattina; chi, esule, rincorre il ricordo degli ulivi, i giorni in cui le vicine, pettegole, spaventavano più di un soldato; ci sono le donne, la loro resistenza, tra occupazione, patriarcato e l’impossibilità di essere madri. Ci sono due generazioni: la prima che ha conosciuto la speranza, il desiderio di due popoli, due Stati; la seconda che non ha mai, nemmeno per un giorno, vissuto una Palestina senza invasore. Sono gli oltre due terzi della popolazione locale e hanno meno di trent’anni. Quando a Oslo si decideva il sogno futuro, loro non erano ancora nati.
The Passenger Palestina termina il suo racconto nei giorni che hanno preceduto l’inasprirsi di una guerra che guerra non è. Eppure, Gaza è già una prigione a cielo aperto; a Jenin un cartello rinomina il campo come la stazione di attesa prima del ritorno; il rapporto del consumo di acqua tra i palestinesi e i coloni è di 37 a 1: significa che in condizioni “normali” un palestinese, a Gaza o in Cisgiordania, consuma un trentasettesimo di acqua non contaminata rispetto a un israeliano che si trova nella stessa terra. Due popoli, due diritti. D’altra parte, fin dal primo momento i coloni si sono assicurati il controllo delle fonti idriche, riducendo sempre di più la quantità destinata al nemico. Da proprietari, i palestinesi si sono trasformati in consumatori costretti ad acquistare acqua dalla Mekorot, la società statale israeliana. Un altro atto inequivocabile di ciò che in Palestina si è sempre inteso fare.
Non è un caso che il sostegno alla soluzione due popoli due Stati, come conclusione a quello che i media chiamano conflitto, vede il 60% dei favorevoli tra i palestinesi e poco più del 10% tra i coloni, chiaramente disinteressati a garantire una terra a chi involontariamente li ospita. Sono dati, questi, che anticipano l’inasprirsi della violenza, eppure già in ribasso (o in rialzo) negli ultimi quattro anni. Dati probabilmente variati in modo drastico proprio nei duecentotrenta giorni di soprusi a cui non si vuole mettere fine.
The Passenger Palestina, dunque, da atipica guida di viaggio diventa un perfetto manifesto politico. Un libro prezioso che, raccontando e lasciando raccontare dati e persone, si inserisce perfettamente nel dibattito pubblico tentando di dare ordine. Di fare Storia. Leggere The Passenger Palestina, allora, è una presa di coscienza. E oggi, più che mai, ce n’è un gran bisogno.
Se l’occupazione israeliana è il contesto obbligato, la ricchezza dell’esperienza umana e l’individualità delle voci e delle situazioni che animano questo paese frammentato rappresentano il tratto che unisce i puntini: disegnando sì un mostro, ma in negativo, mettendo cioè in risalto il coraggio di chi resiste, la capacità di reagire quotidianamente al trauma individuale e collettivo, la pazienza, la forza e l’ostinazione che essere palestinesi comporta.