Al mio mulo non piace la gente che ride, ha subito l’impressione che si rida di lui: con questa laconica e ironica battuta su un mulo si apriva la carriera cinematografica di Clint Eastwood nella celeberrima prima scena di Per un pugno di dollari in cui il pistolero senza nome freddava quattro scagnozzi, non prima di averli edotti riguardo la sensibilità del suo animale al quale avevano incautamente sparato tra le gambe per spaventarlo. È interessante, quindi, che il titolo originale della nuova fatica eastwoodiana sia proprio The mule, ovvero il mulo, parola che, se nel gergo del film sta a intendere un corriere della droga, in senso letterale invece indica l’animale da soma, simile al ciuco, noto per la sua testardaggine. Da qui, non ci vuole molto a individuare in questa caratteristica, senza giudizio di sorta ma anzi in un’accezione puramente affettuosa, una delle principali peculiarità di molti personaggi dell’Eastwood attore che, con la pellicola ora al cinema, mette in scena una ricapitolazione più compassata e rilassata, ma non meno problematica e dolente, dei ruoli che lo hanno reso celebre.
Sono passati dieci anni dal capolavoro Gran Torino e sembrava ormai certo che Clint non sarebbe più tornato a dirigere se stesso – men che meno a interpretare per altri, se escludiamo l’eccezione del 2012 Di nuovo in gioco in cui recitò per il suo storico collaboratore Robert Lorenz –, ma l’incredibile storia vera di Leo Sharp – desunta dallo sceneggiatore Nick Shenck, lo stesso di Gran Torino, da un articolo del New York Times di Sam Dolnick del 2014 –, floricultore novantenne caduto in disgrazia che si reinventa corriere del cartello messicano della droga per aiutare la sua famiglia, era molto succulenta, troppo nelle corde del divo americano per resistere alla tentazione di calarsi di nuovo nei panni di qualcun altro davanti alla macchina da presa. E, infatti, il personaggio di Earl Stone – questo il nome in cui viene tramutato Leo Sharp, decisamente più duro e molto più “western” – sembra cucito su misura per Eastwood ma, attenzione, per un Eastwood invecchiato ulteriormente dall’epoca di Gran Torino in cui aveva “solo” 78 anni, mentre adesso ne ha 88 (89 il prossimo 31 maggio). Il Clint quasi novantenne è maggiormente rasserenato, ha perso in parte il tratto burbero del Walt Kowalski di un decennio fa – e di tanti altri celebri personaggi – e tende invece a godersi la vita perché, tanto, sa che il tempo è l’unica cosa che non può comprare e che, arrivato a questo punto, non ha più nulla da perdere, sia come personaggio ma anche come autore e attore, potendo permettersi così di fare tutto ciò che vuole. In questo, la commistione tra il personaggio di Earl e l’Eastwood regista/attore è pressoché totale. Inoltre, il celebre artista americano non ha affatto paura di mostrare i segni dell’età e infatti lo vediamo spesso avanzare con la tipica pesantezza dell’anzianità, non risparmia dettagli sulle sue braccia dimagrite o sulla pelle sempre più raggrinzita, ma porta tali segni con assoluta dignità perché sa che su quelle rughe è inscritta tanta storia del cinema e che il suo solo incedere all’interno di una scena, sebbene più appesantito dagli anni, è lo stesso del pistolero senza nome di Leone, di Dirty Harry, di Josey Wales (Il texano dagli occhi di ghiaccio), del Cavaliere pallido, di William Munny (Gli spietati) e di tanti altri. L’incedere di Eastwood è un marchio di fabbrica, un valore aggiunto, un segno visivo che porta con sé interi mondi cinematografici. Il suo stesso corpo, ormai monumento, parla il linguaggio del cinema e mettendolo nuovamente su schermo reinnesta inevitabilmente un immaginario molto potente con il quale il nostro Earl Stone dialoga efficacemente grazie anche all’auto-ironia che non è mai mancata a Clint. È curioso che nella stessa stagione, un altro grande vecchio, Robert Redford, sia tornato in un ruolo anche per lui di ricapitolazione con The old man and the gun, film indubbiamente più riconciliato e decisamente auto-celebrativo rispetto al nostro indomito mulo.
Come si diceva, l’Earl Stone dell’Eastwood quasi novantenne eredita solo in parte alcune caratteristiche del Kowalski di Gran Torino e di tante altre sue celebri incarnazioni. Come Walt, Earl non si fa problemi a giocare ironicamente con gli stereotipi del politicamente corretto, appellando le persone con negro e lesbica dopo esser stato appellato a sua volta vecchio, inoltre brontola contro la modernità (altro tratto tipico), stigmatizzando internet e l’uso del telefonino ma, per la prima volta, è più sorridente, cerca di godersi la vita e perfino di piacere agli altri, cosa impensabile per un personaggio eastwoodiano, la cui prima preoccupazione non è mai stata quella di essere benvoluto da tutti. Qui, invece, è diverso: Earl si prodiga per gli altri, è gentile e affabile, perfino con i delinquenti con i quali ha a che fare per il suo nuovo e ben remunerato lavoro. È nella prima parte del film, infatti, che esce fuori una vena comica basata sul classico meccanismo del personaggio fuori posto, in questo caso un novantenne che si trova, per necessità, a fare da corriere per uno spietato cartello della droga messicano, incarnato tra l’altro da un formidabile Andy García. Mentre le giovani leve della delinquenza prendono sul serio lo smercio di cocaina, Earl se la prende comoda durante i suoi viaggi con il pick-up: fa soste impreviste per mangiare il miglior arrosto del Midwest, si ferma ad aiutare persone che hanno bucato ruote, canticchia canzoni country mentre guida, scherza con i “colleghi” di lavoro, va addirittura a donne – dichiarando che probabilmente il suo cuore non reggerà –, godendosela più che può. Inoltre, lo vediamo divertirsi alle convention floreali prima, nonché alla festa organizzata dal boss García poi. La prima parte del film ha un andamento divertente ma tranquillo, sembra scaturire dalla rilassatezza con cui oggi Clint affronta la vita, la stessa con cui il personaggio di Earl affronta i suoi viaggi con 200 chili di droga nel bagagliaio, quasi fossero una scampagnata. Non manca, inoltre, uno sguardo partecipe e affettuoso nei confronti dell’America rurale, paesaggio naturale e umano, tipico di tanti film on the road, caratteristica che è anche l’anima di The mule.
Nella seconda parte la rete degli agenti DEA, incarnati da Bradley Cooper e Laurence Fishburne, si fa più stretta attorno al cartello messicano e al fantomatico corriere soprannominato El Tata, così la tensione sale e gli eventi precipitano. Infine, la redenzione che Earl cerca nei confronti della propria famiglia, trascurata a favore della coltivazione di fiori che durano simbolicamente un giorno, sembra essere la stessa che Clint cerca forse nei confronti della propria prole, la Alison Eastwood che, non casualmente, in questo film interpreta la figlia delusa di Earl, padre perennemente assente. Il personaggio della ex moglie, interpretata da una bravissima Dianne West, dà modo a Eastwood di toccare corde davvero commoventi. The mule, infatti, riesce a trasmettere quel delicato equilibrio tra tenerezza, ironia, cruda realtà della vita e conflitto interiore che caratterizzano da sempre la cifra di Clint in quanto autore. Conflitti che, nei suoi film, portano sempre a scelte estreme, avanzate con la risolutezza tipica di chi riesce a prendere in poco tempo decisioni molto difficili e costose – in termini emotivi e/o fisici –, ma coerenti con i propri principi. Così, anche se la pellicola non è un capolavoro come Gran Torino o Mystic river, il cortocircuito tra il Clint personaggio e l’Eastwood autore è completo e si chiude in modo davvero ottimale.
Ovviamente non aggiungiamo altro riguardo la trama, ma torna in mente la battuta che Earl, già nel trailer del film, ripete ossessivamente: Questa è l’ultima volta, questa è l’ultima volta, quasi a suggello meta-filmico di un’intera carriera, se non da regista, almeno da attore.