Lo schermo si illumina e mostra una città nel mezzo del deserto. Una calda voce femminile annuncia: per troppo tempo l’umanità è esistita in metropoli inquinate e disfunzionali, che ignorano la natura. Ora, è tempo di una rivoluzione della civiltà. I palazzi cominciano a librarsi in aria e a raggrupparsi in una lunga fila. La natura riprende a crescere tutto intorno e un’alta muraglia specchiata avvolge gli edifici. Stiamo guardando lo spot di The Line, il progetto lanciato da Mohammad bin Salmān, potente principe ereditario dell’Arabia Saudita.
Si tratta di una smart city, già in costruzione, diversa da ogni proposta mai fatta: non più metropoli tentacolari che si espandono in ogni dove, ma una sottile ed elegante lama che taglia paesaggi incontaminati. The Line sorgerà lungo il Mar Rosso, sarà connessa da treni ad alta velocità – non ci saranno strade né auto – e sarà completamente alimentata dalle energie rinnovabili.
The Line è parte di un progetto più ampio: Neom – a vision of what a new future might look like. Parliamo di una società gestita dal principe che intende rivoluzionare la provincia di Tabuk, riempiendola di laghi artificiali, ville di lusso e centri sciistici. Il motto della società – una visione del futuro – è il punto essenziale del progetto: non costruire delle semplici strutture avanguardistiche, ma proporre una soluzione per migliorare la vita dell’intera civiltà umana. Mohammad bin Salmān ci vuole liberare dall’incubo dell’inquinamento e delle megalopoli alienanti, creando un futuro green, sostenibile, tecnologico. Per convincere gli spettatori della propria visione, il principe ha assunto famosi designer hollywoodiani, li ha istruiti, e ha dato loro il compito di ricostruire negli spot una vera e propria utopia fantascientifica.
Il team di grafici ha scavato nel cinema sci-fi e in tutti i suoi sottogeneri: dalle metropoli cyberpunk di Blade Runner e Akira all’utopia afrofuturista del Wakanda. Quest’ultima è piaciuta così tanto al principe da convincerlo a non bandire Black Panther in Arabia Saudita, primo film di Hollywood proiettato nel Paese dopo anni di censura. T’Challa dopotutto deve essere il sogno erotico di ogni sovrano: un re/supereroe, forte e illuminato, alla guida di uno Stato ricco e iper-tecnologico. Lì dove il Wakanda ha il vibranio, l’Arabia Saudita ha il petrolio, e perché non dovrebbe utilizzare questa risorsa per proiettarsi anni luce avanti? Il risultato è un progetto ambizioso, in cui boschi e cascate si dipanano in una stretta città lineare, chiusa in una muraglia alta quanto l’Empire State Building e lunga come Long Island.
Con un tempismo perfetto, in questi giorni mi è arrivato l’ultimo numero di Arabpop (Tamu Edizioni), dedicato proprio al futuro del mondo arabo. Una delle intuizioni più interessanti proviene dall’artista Sophia Al-Maria, ovvero il concetto di Gulf Futurism. Secondo Al-Maria, c’è stato un vero e proprio salto temporale nella penisola arabica: la crescita è avvenuta di colpo, rapida e improvvisa come un getto di petrolio. Il vecchio e il nuovo sono stati cuciti assieme frettolosamente, come se ci fosse un pezzo di storia mancante: uno dei modi di vivere più antichi di sempre si è scontrato tutt’a un tratto con il capitalismo e con questa ricchezza estrema: vetro e acciaio contro lana e cammelli. La popolazione più ricca si è adattata al lusso e alla tecnologia, ma ha conservato una mentalità arcaica: nel Golfo Persico è ancora diffuso il wahhabismo, una branca saudita ultraconservatrice del salafismo.
Il Golfo è grattacieli, isole artificiali, hotel di cristallo, ma anche autoritarismi, censura e fondamentalismo religioso. Un titolo di Lercio – giornale fittizio specializzato in bufale ironiche – riportava in Arabia Saudita la prima lapidazione di una donna eseguita con l’utilizzo di droni: una provocazione, che però centra il segno. Secondo Sophia Al-Maria, il Golfo Persico è davvero una visione del futuro, ma non rassicurante. Dopotutto, gran parte del pianeta è a rischio desertificazione, e comincia a essere facile immaginare un Mediterraneo – o il mondo intero – trasformato nella penisola arabica. Sfruttamento forsennato delle risorse, multimiliardari nelle loro roccaforti di lusso, centri commerciali climatizzati come unici spazi vivibili: è cultura del consumo in un deserto robot. L’artista ribadisce: il Golfo è una profezia di quello che verrà.
E, allora, guardiamo il futuro con attenzione: torniamo alla nostra città lineare e cerchiamo di capire se si tratta di un’utopia o una distopia. Il principe ha scelto, come location della sua visione, la provincia di Tabuk, per i suoi paesaggi meravigliosi e incontaminati. Il principe vuole ridare al suo popolo un accesso alla natura, ma in realtà il suo popolo lì c’è già. La tribù Howeitat, una comunità Judhaimi, vive da secoli proprio a Tabuk, tra nomadismo e agricoltura. Potete immaginare la storia: prima, le proposte economiche per acquistare le terre della tribù, le promesse, le parole suadenti. Dopo, i primi rifiuti, il cambio di narrativa, le pressioni, le minacce. Poi, le forze di sicurezza saudite armate che entrano nei villaggi. Abdul-Rahim al-Howeiti è stato la prima vittima: il contadino Howeitat, dopo essersi opposto all’esproprio delle sue terre, è stato ucciso in un conflitto a fuoco con le guardie.
Nonostante gli enormi sforzi del principe per rendere il Paese entusiasta della sua fantasia, le cose non stanno andando come sperava. L’uccisione di al-Howeiti ha creato un martire e gli attivisti per i diritti umani si stanno alleando con la tribù nomade. Nel frattempo, dozzine di dipendenti chiave di Neom si stanno licenziando. Nessuno di loro accetta di parlare con la stampa; qualcosa non va nella realizzazione della città, ma l’unica volta che un ex dipendente si è esposto criticando il progetto, è stato rinchiuso in carcere.
Sul sito di Neom si parla di inclusività, ma la città sarà popolata solo da chi se la può permettere: miliardari e membri della casata reale. Si parla di progresso, ma le forze di sicurezza saudite assassinano e incarcerano i dissenzienti. Si parla di ambiente, ma l’Arabia Saudita incrementerà la produzione di petrolio. The Line, più che il Wakanda, comincia a somigliare alla Capitol City di Hunger Games: dietro alla sua facciata sfarzosa e tecnologica, si nasconde un’autorità repressiva e sfruttatrice.
Negli anni Settanta, il Superstudio, un gruppo di studenti di architettura, aveva creato una provocazione: il Monumento Continuo. Immaginate una grande muraglia di specchi e metallo che non protegge o separa, ma che viaggia attraverso i continenti, ricoprendo foreste, città, laghi e oceani. Un’architettura globale, potenzialmente infinita, che arriva addirittura a sostituirsi alla natura stessa. Il delirio provocatorio del Superstudio è diventato realtà, oggi, con The Line. La città lineare non è altro che il delirio di onnipotenza di un sovrano megalomane che, pur di dimostrare la potenza saudita, si vuole spingere oltre ogni limite della civiltà umana. Come per le piramidi, gli altari fascisti o gli sfarzosi palazzi reali europei, l’architettura è qui un mero strumento per esternare il potere sociale ed economico di chi è al governo.
Per fortuna, è difficile che la città lineare possa essere emulata altrove. Neom sta prosciugando le casse dell’Arabia Saudita: il progetto doveva costatare 500 miliardi di dollari – una cifra già impressionante – ma a causa dei ritardi e delle problematiche costerà al regno un trilione di dollari. Il progetto non potrà mai essere un nuovo modello di urbanizzazione: significherebbe allocare per una singola città le risorse che potrebbero cambiare il volto di un intero Paese.
La linea non si espanderà per tutto il globo ed è un bene. Il principe Mohammad bin Salmān ha da poco dichiarato: «Noi rifiutiamo la falsa scelta tra preservare la nostra economia e proteggere l’ambiente». Ed è qui il problema: qualsiasi progetto che non rifiuta il realismo, l’autoritarismo e l’economia dello sfruttamento è uno specchietto per le allodole, un miraggio illusorio. La cosa che mi preoccupa però è: bastano uno spot ben fatto e una buona computer grafica a venderci la peggiore distopia autoritaria come una rivoluzione ecologica?