The Front Runner – Il vizio del potere comincia con un virtuosistico piano-sequenza che ci immette già nel cuore tematico della vicenda: la macchina da presa esplora una strada zeppa di camioncini della tv (in gergo, le ENG, Electronic News Gathering, ovvero le troupe televisive leggere) che stanno commentando i risultati delle primarie democratiche del 1984 proprio sotto la sede del comitato elettorale del candidato Gary Hart. Le voci e i volti si sovrappongono come in un lavoro di Altman e lo sguardo e l’udito si perdono in questo overlapping del quale l’unica cosa che risulta è che Hart è arrivato soltanto secondo.
Il film è già sapientemente contenuto in questa prima scena, girata in un unico take, che ci lascia disorientati di fronte al chiacchiericcio generato dalle numerose troupe i cui commenti concitati si mescolano disordinatamente fino a concludersi con un – volutamente – desueto zoom che porta l’attenzione dello spettatore verso una finestra del palazzo antistante dove un uomo dello staff di Hart è affacciato e contempla lo spettacolo amareggiato. Da qui, con un movimento che ci porta dall’esterno verso l’interno, quindi simbolicamente dal pubblico al privato, entriamo con uno stacco negli uffici del comitato del candidato. In questo efficacissimo incipit, dunque, c’è già tutto ciò che troveremo poi dispiegato nel resto della storia.
A seguire, giungiamo direttamente alle ultime tre settimane delle primarie del 1988 quando il giovane senatore idealista Gary Hart è il favoritissimo e, se vincesse, rischierebbe di diventare Presidente degli USA al posto di Bush Senior ma, come si sa, le elezioni andranno diversamente. La Storia con la esse maiuscola viene così alterata da una faccenda privata, in questo caso uno scandalo sessuale che travolge la vita di Hart – almeno in questo momento – e ne pregiudica la carriera politica. Vicenda vera che in Italia è poco nota ma che invece in America diventa un caso paradigmatico, il primo nel quale la stampa va a scavare nella vita privata di un politico perché, come fa notare lo storico caporedattore del Washington Post, Ben Bradlee – qui interpretato da Alfred Molina ma già portato sullo schermo nel 1976 da Jason Robards in Tutti gli uomini del presidente e da Tom Hanks l’anno scorso nello spielberghiano The post –, i tempi sono ormai cambiati.
Infatti, mentre negli anni Sessanta l’informazione ha chiuso un occhio sulle scappatelle di Kennedy prima e di Johnson dopo, negli anni Ottanta ciò non è più possibile e l’integrità morale di un politico nella sua vita privata conta quanto e forse addirittura più di quella dimostrata in pubblico, almeno secondo la morale americana per cui anche un adulterio diventa un affare di Stato, questo dieci anni prima dell’episodio Lewinsky.
Jason Reitman che, dopo il folgorante debutto con il caustico Thank you for smoking, fino a ora ci ha abituato a commedie dal sapore amaro, perché efficaci spaccati sociologici – Juno e Tra le nuvole su tutti –, e sempre di respiro intimo, stavolta si confronta con la Storia e decide di affrontare il caso Hart ponendosi a una giusta distanza dai fatti, anche stilisticamente, con un forte utilizzo di teleobiettivi che ci danno la sensazione di spiare nella vita delle persone, cosa che appunto fanno i giornalisti dell’Herald che si appostano maldestramente fuori la casa del senatore per coglierlo in flagrante nel corso di una tresca con un’avvenente biondina.
Va detto che proprio la presenza del già citato caporedattore Bradlee e anche – in maniera più defilata – di Bob Woodward (interpretato da Spencer Garrett), storico giornalista che insieme a Carl Bernstein porterà alla luce il caso Watergate, costituiscono un chiaro rimando e quindi un segno di appartenenza/ossequio alla stagione d’oro del cinema civile americano degli anni Settanta di cui il capolavoro di Alan J. Pakula Tutti gli uomini del presidente – che raccontava appunto dell’inchiesta Woodward-Bernstein – è la punta di diamante.
Ma la domanda di The Front Runner è: può un uomo che mente alla moglie essere qualificato per diventare Presidente degli Stati Uniti? Oppure mettendola in un altro modo: fino a che punto la stampa ha il diritto di ficcare il naso nelle faccende private di un uomo politico, se tali faccende non hanno nulla a che fare con le sue funzioni pubbliche? Due facce di una stessa medaglia su cui il film non prende apertamente posizione, dando voce all’una e all’altra parte. La narrazione, infatti, viaggia su più linee parallele: da un lato l’integerrimo ma opportunista Hart – interpretato da un convincente Hugh Jackman – e il suo staff, dall’altro la moglie Lee –Vera Farmiga già presente in Tra le nuvole – con la figlia, e poi ancora i giornalisti, in particolare le redazioni dell’Herald e del Post. Non dimentichiamo il capo dello staff di Hart, Bill Dixon, interpretato dall’immenso e duttile J. K. Simmons – premio Oscar 2015 come non protagonista per Whiplash – a suo agio nel ruolo dell’appassionato grillo parlante/coscienza del giovane senatore. C’è spazio, poi, anche per le ripercussioni sulla vita privata di Donna Rice, la giovane amante di Hart, tratteggiata in modo compassionevole. Su tutto c’è l’onnipresenza della stampa e dei mass media che non si fanno scrupoli a rimestare nel torbido pur di fare notizia.
A tal proposito, è emblematico il personaggio del giovane giornalista afroamericano del Post – interpretato da Mamoudou Athie – che, insistendo con le domande sulla vita privata di Hart, sia in un’intervista vis-à-vis sia – a tradimento – nel corso di un’imbarazzante conferenza stampa, incarna alla perfezione lo spirito moralistico e puritano di un’America ipocritamente attenta alla sacralità della famiglia. È proprio lo stesso cronista a dichiarare apertamente che sia il popolo americano sia molti colleghi sono preoccupati per l’atteggiamento del senatore nei confronti del matrimonio. Nel nostro Paese, dove abbiamo tollerato politici-satiri che facevano orge con ragazzine, può far sorridere tutto questo ma negli Stati Uniti, come si sa, un adulterio diventa una faccenda molto grave agli occhi dell’opinione pubblica.
Alla fine è chiaro che la bilancia di Reitman e del film penda decisamente dalla parte di Hart che negli anni Ottanta sembrava poter raccogliere l’eredità di Kennedy con il suo forte idealismo, le iniziative sull’istruzione, l’impegno alla distensione con l’URSS e che, non volendo prestare il fianco al chiacchiericcio, ne fu travolto comunque. Jackman, spogliati ormai i panni del mutante Wolverine, ha la faccia giusta per incarnare l’idealismo tipicamente americano di cui il film è intriso, nonostante l’apparente distanza che il regista vuole mettere. In conclusione, The Front Runner parla di un caso di trent’anni fa usando efficacemente il linguaggio e la messa in scena della New Hollywood dei Settanta – Altman e Pakula in testa – per parlare in realtà della situazione attuale, di come ci si è arrivati e delle eventuali strade che avrebbe potuto prendere la Storia se non fosse stata alterata da un iniquo, ma privato tradimento. Ma, come diceva l’intramontabile Bogart nel classico del 1952 L’ultima minaccia, è la stampa, bellezza!