Promesse fatte, promesse mantenute. È con questo motto che, salutando i suoi dalla residenza di Mar-a-Lago, il 47esimo Presidente degli Stati Uniti ha giurato di governare per i prossimi quattro anni. Per ora, a poco più di due mesi dall’insediamento, ha mantenuto il primo dei tanti impegni presi: tornare alla Casa Bianca. Stavolta, anche con il consenso popolare.
La rielezione di Donald Trump allo Studio Ovale è la seconda non consecutiva nella storia statunitense – l’altra, nell’Ottocento, con Grover Cleveland – e la prima vera batosta per i democratici da almeno vent’anni a questa parte. Se nel 2020 Joe Biden aveva fatto incetta di consensi diventando il più votato di sempre, infatti, bisogna tornare al 2004 e a George W. Bush per trovare un repubblicano preferito al suo avversario. Subito dopo, appunto, c’è il Trump del 2024. Nemmeno nel 2016 ci era riuscito: all’epoca, The Donald aveva strappato la presidenza a Hillary Clinton con circa tre milioni di voti in meno. Stavolta, invece, si è imposto su Kamala Harris con quasi cinque milioni di consensi in più.
La vittoria, per il Tycoon, è stata netta anche tra i cosiddetti grandi elettori e in tutti gli swing States, gli Stati in bilico che ieri decretavano l’affermazione di Biden (6 su 7) e oggi rinvigoriscono quella di Trump (7 su 7) per un’elezione che – al contrario di quanto previsto dai sondaggi – si è rivelata senza storia ma destinata a farla.
Il New York Times scrive che questa è stata una conquista della nazione non con la forza – come poteva temersi dopo l’assalto di Capital Hill (per il quale Trump è sotto inchiesta, forte dell’immunità concessagli dalla Corte Suprema) e una verbalmente violenta campagna elettorale – ma con un permesso firmato che gli consentirà di andare a Washington con ampia libertà di azione.
A tal proposito, il noto quotidiano parla di un’America sul precipizio di uno stile autoritario di governance mai visto prima nella sua storia. Mai prima dell’elezione di un condannato penalmente – attualmente fuori su cauzione –, invischiato in numerosissimi scandali e coinvolto in altrettanti processi: tutto quanto gli elettori hanno già dimenticato e ora dimenticherà persino la giustizia.
I repubblicani, infatti, hanno ottenuto la maggioranza in Senato e sono molto vicini alla conquista della Camera. In questo modo, Trump non solo avrà il controllo totale del Congresso almeno fino alle elezioni di midterm nel 2026, ma anche la strada spianata per la risoluzione di tutti, o quasi, i suoi guai da semplice cittadino e rappresentante delle istituzioni.
Come sappiamo, negli Stati Uniti il Senato ha facoltà di scegliere i segretari (i ministri) e di bloccare le nomine dei membri della Corte Suprema, quella che già in precedenza, con la scelta di tre giudici su nove – gli stessi che gli hanno concesso l’immunità e, dunque, l’eleggibilità – Trump ha voluto fortemente conservatrice. La vittoria elettorale, inoltre, chiuderà definitivamente almeno due dei processi penali a suo carico (quelli federali) e sospenderà il terzo (statale) in Georgia. La condanna dello scorso maggio a New York per il caso della pornostar Stormy Daniels (ben 34 capi d’accusa), invece, potrebbe essere rinviata o sospesa, così come gli innumerevoli processi civili per diffamazione, abusi sessuali e frode fiscale. Il presidente eletto è ora giudice e giuria di se stesso. Niente che non si potesse preventivare. Chi lo ha scelto conosceva Trump e in qualche modo ne ha accettato i trascorsi.
Dai tempi di Franklin Roosevelt, il candidato repubblicano è stato il primo a ottenere la nomina per la terza volta (2016, 2020, 2024) e sarà l’inquilino più anziano a sedersi nello Studio Ovale. Ciò dimostra che una delle maggiori critiche mosse a Joe Biden non costituiva un reale problema per gli americani o almeno – al netto delle difficoltà del Presidente uscente – non fino in fondo. Fosse stata l’età il vero dilemma, Kamala Harris avrebbe vinto. E avrebbe vinto anche se, come qualcuno ipotizzava, gli elettori avessero sentito irrefrenabile il desiderio di novità.
È qui, soprattutto, che va rintracciato ciò che forse potrebbe aver decretato la vittoria di Trump a dispetto di tutti i suoi nonostante: l’America – per citare ancora il New York Times – ha ingaggiato l’uomo forte, quello che in qualche modo ha saputo parlarle in un momento di grandissima confusione. Per quanto sia impossibile un’analisi che abbracci l’intero elettorato (ricordiamo che Harris ha ottenuto 68 milioni di voti, più di quanti abitanti faccia l’Italia intera), Donald Trump – maestro di populismo e propaganda – ha colto due delle maggiori preoccupazioni degli statunitensi e, a suo modo, se ne è fatto portavoce: economia e immigrazione.
Quasi sette americani su dieci sostengono che l’economia va male, eppure il PIL registra una crescita del 7%, ben cinque milioni di posti di lavoro sono stati creati (la disoccupazione è al 4%) e l’inflazione è calata drasticamente (dal 9% al 2,4%). L’oggettività dei dati, dunque, non incontra il sentire comune, il che significa che c’è un problema di comunicazione, quindi di fiducia, tra chi governa e chi è governato. Trump lo ha capito e ne ha approfittato, battendo gli avversari su un terreno – in teoria – per loro morbido.
Discorso simile si è riproposto in tema immigrazione. Oggi come quattro anni fa, gli Stati Uniti dimostrano scarsa capacità di gestione del fenomeno migratorio che avalla, e non poco, i flussi irregolari e, spesso, mortali di coloro che sognano l’America. In tal senso, le politiche di Biden, al contrario di quanto ne dica Trump, non si sono discostate troppo dal suo predecessore, arrivando a giugno scorso alla firma di un ordine esecutivo che contingenta gli ingressi: non più di 2500 al giorno. Un tentativo estremo e mal riuscito – perché propagandistico – di controllo della frontiera messicana, la stessa dove il Tycoon volle il muro, separò le famiglie, rinchiuse in gabbia quelli che a tutti gli effetti divennero dei deportati e per il quale, nonostante tutto, gli elettori si sono detti fiduciosi. Persino nella famosa Springfield, dove il Tycoon sostiene che le persone che sono entrate stanno mangiando i cani e i gatti.
Le fake news, la violenza verbale, gli eccessi non hanno fermato Donald Trump. Piuttosto, hanno confermato che l’ex e futuro Presidente non è cambiato e che non ha avuto bisogno di farlo nemmeno in questa campagna elettorale. Dalla sua prima elezione, però, a cambiare sono stati gli USA e il mondo, così come già la sua scalata alla Casa Bianca del 2016 aveva cambiato la storia e sdoganato un’ideologia di stampo fascista. Da allora, non si può non riconoscere quanto la società americana si presenti ancora spaccata a metà e, al contempo, estremamente frammentata. Così tanto che neppure i temi difesi da Kamala Harris (diritti civili, aborto, cambiamento climatico) sono bastati a compattare elettorato e posizioni politiche, sempre meno determinati da etnia e reddito e sempre più condizionati dal livello di istruzione.
Le classi che hanno formazione minore si riconoscono in Trump, i dati parlano chiaro, ma non per questo bisogna spiegare la sua elezione con l’ignoranza. Né si può semplicisticamente parlare di razzismo, misoginia, xenofobia e disinformazione. Al contrario, bisogna interrogarsi sul perché – negli USA come in Europa – i democratici non si rivolgano più a coloro di cui dovrebbero difendere gli interessi e condividere le fondamenta, comprendere lo scollamento, l’incapacità e spesso la mancata volontà di parlare a tutti, o quasi.
Non è un caso che Harris sia andata male anche dove doveva andare bene né che abbia vinto con margini risicati. L’errore, il primo commesso dai dem – la bocciatura è più a loro che alla candidata entrata in corsa –, è stato disperdere quanto di buono era nato nel 2020 con il movimento formatosi dopo l’assassinio di George Floyd. Quel movimento intersezionale univa tanti sotto un’unica bandiera, la stessa che aveva tirato fuori Trump dalla Casa Bianca e che aveva rappresentato il primo e necessario step per ricostruire un’uguaglianza sociale ed economica di uno Stato profondamente diviso a metà tra grandi imprenditori e sobborghi affamati, tra Google e gli operai della Pennsylvania stremati dal liberismo. Ed è proprio la Pennsylvania che ha fatto da ago della bilancia, stavolta, di nuovo, a favore di Trump.
Quel movimento, privo di una leadership forte, dimenticato da riflettori e spunte blu, si è disgregato, svuotato del collante che teneva unite le istanze, in qualche modo sminuite, messe a tacere, come se l’America non fosse più ingiusta. Come se bastasse il ritorno di un democratico per pulire le mani sporche di sangue nero o la caduta del Tycoon per riprendersi lo spazio dei suprematisti bianchi, del KKK, dei negazionisti. Tutto ciò mentre The Donald non abbandonava i suoi. Li incitava, piuttosto, a stare indietro sì, ma pronti. Pronti a tornare. Pensare che Capital Hill fosse una parentesi, un momento, una sbandata è stato un altro grave errore.
Non esiste, oggi, un movimento come quello che rispondeva al Black Lives Matter. Lo è, in parte, il fronte pro-Palestina ma anche questo, negli Stati Uniti (e nel resto del mondo) è stato tradito dai democratici che finanziano il genocidio di Netanyahu, mentre Trump – che questo genocidio lo ha preparato nel suo primo mandato, così come la ritirata catastrofica dall’Afghanistan – viene celebrato come il Presidente che non ha mosso guerra, lo stesso che ancora oggi sfoggia il vessillo della promessa di pace.
Ammaliati dallo scintillio di Taylor Swift, distratti dalla falcata di Beyoncé, i democratici hanno sottovalutato (anche) l’avvento di Elon Musk, la sua pericolosissima algoritmica ingerenza nella vita politica del mondo e i 119 milioni di dollari investiti a favore di Trump che dovranno tramutarsi per forza di cose in un tornaconto senza precedenti in termini di democrazia e libertà (per non parlare dei 13 miliardi fruttatigli solo nell’Election Day). I democratici hanno ignorato i segnali, ci hanno riso su per tutta la campagna elettorale, ballando sulle note dell’evidente grossolanità avversaria, la stessa per cui alla fine più di 72 milioni di persone non li hanno scelti. La tragedia e la farsa, ricordate?
Anche questo novembre, il sogno americano si è confermato l’incubo che è sempre stato. Talmente concentrato su se stesso da essersi accartocciato, dimenticando valori auto-attribuitisi – the land of freedom and opportunity – a favore di un’oligarchia che parla e illude democratico. L’1% della popolazione ha convinto il restante 99% di non poterne fare a meno e lancia un monito: non è più tempo per le mezze misure, per la politica moderata che non sceglie – scegliendo – per non farsi divisiva.
Il Paese del terzo mondo più ricco e potente del pianeta lo ha detto a gran voce: meglio un criminale noto che un anonimo complice.