Prima venne l’editto Bulgaro, poi arrivò TeleMeloni. L’obiettivo era ed è lo stesso: controllare il servizio televisivo pubblico. E, fin qui, nessuna novità. Inedita, invece, è la delibera sulla par condicio in vista delle Europee approvata a maggioranza in Commissione di Vigilanza RAI.
In particolare, l’emendamento a firma di Francesco Filini (Fratelli d’Italia), Giorgio Maria Bergesio (Lega) e Maurizio Lupi (Noi Moderati) introduce la necessità di garantire il diritto ai cittadini a una puntuale informazione sulle attività istituzionali e governative nei programmi di approfondimento giornalistico, che non deve essere ostacolata dal principio di par condicio. Vien da sé che il criterio secondo cui nei media si deve consentire a ciascuna parte politica adeguata ed equa visibilità è del tutto stravolto e rischia, seriamente, di vedere la tv pubblica ancor meno libera e più partitica.
Dura è stata la reazione delle opposizioni che hanno accusato la volontà di far esondare il governo durante la campagna elettorale, eliminando il motivo per cui esiste la par condicio. Ciononostante, dopo una riformulazione, la stessa minoranza si è espressa a favore di un altro emendamento che esclude dal conteggio gli interventi televisivi dei rappresentanti dell’esecutivo quando chiamati a discutere di materie inerenti all’esclusivo esercizio delle funzioni istituzionali svolte.
La loro presenza, si legge, deve essere limitata esclusivamente alla esigenza di assicurare la completezza e l’imparzialità dell’informazione. In poche parole, il centrodestra avrà non solo più spazio a disposizione, ma potrà utilizzare l’attività di governo per fare, travestito e autorizzato, propaganda elettorale a tutti gli effetti. A trarne vantaggio, oltre ai partiti, saranno soprattutto i diretti interessati alle prossime Europee come, pare, gli stessi Antonio Tajani e Giorgia Meloni, adesso senza alcun vincolo di tempo nei loro interventi, così come i ministri e i sottosegretari.
La votazione ha scatenato l’ira dell’USIGRAI, il sindacato dei giornalisti delle reti di Stato, che ha parlato di servizio pubblico televisivo ridotto a megafono di governo. Nel comunicato letto nel corso dei vari tg, i dipendenti RAI hanno infatti sottolineato quanto questo provvedimento non risponda alla loro idea di servizio pubblico, dove al centro c’è il lavoro dei giornalisti e delle giornaliste che fanno domande anche scomode (non troppo spesso, a onor del vero), verificano quanto detto, fanno notare incongruenze. Per questo, dicono, sono pronti a mobilitarsi per garantire un’informazione indipendente, equilibrata e plurale.
Non solo, però, interventi senza vincoli di tempo e senza contradditorio. La misura nota anche come Lodo Fazzolari prevede che RAI News trasmetta integralmente i comizi politici senza alcuna mediazione giornalistica e che faccia precedere queste dirette da una sigla, così da non confonderle con le edizioni dei telegiornali. Non cambiano, invece, le regole per le tv private, per le quali l’AGCOM ha approvato la delibera per la par condicio senza modifiche. Da oggi la RAI assomiglia di più all’EIAR di epoca fascista, ha tuonato la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) ed è difficile darle torto alla luce di emendamenti che mai, sino a ora, avevano trovato spazio nel dibattito pubblico.
Se, infatti, da sempre chi si alterna al governo dedica spazi e posti a personaggi e temi a lui più vicini, così come mette a tacere le voci discordanti, mai era successo che la maggioranza votasse da e per sé una tale, preoccupante, manovra censoria. Una deriva che, in realtà, già tantissimi telespettatori denunciavano da mesi, con particolare riferimento all’edizione serale del TG1, sempre più schierata e a esclusivo appannaggio di Lega e Fratelli d’Italia.
Addirittura, al centro delle polemiche era finito anche l’ultimo Festival di Sanremo con la presa di posizione di Roberto Sergio, l’amministratore delegato di TeleMeloni che, durante l’ormai celebre puntata di Domenica In, aveva imposto a Mara Venier la lettura di un comunicato di solidarietà a Israele, che in quei giorni – tramite l’ambasciatore in Italia Alon Bar e la comunità ebraica – stava attaccando Ghali e quei pochi che dal palco più celebre del Paese avevano chiesto il cessate il fuoco. Quell’atto ufficiale, tramutatosi in uso politico, e privato, del servizio televisivo pubblico (inammissibile perché pagato dai contribuenti), si è rivelato oggi soltanto l’anticamera di un processo ben più intimidatorio.
Nemmeno lo sguardo fiero di Silvio Berlusconi che, telecamere a favore, aveva approfittato della conferenza stampa di Sofia, in Bulgaria, per lanciare un messaggio tanto chiaro quanto conciso all’informazione e alla comicità di casa sua – o con me o contro di me, nel secondo caso esiliati dalla tv di Stato – aveva osato tanto.
Per la prima volta da quando è stato varato il regolamento nel 1993, infatti, la par condicio non garantirà più il corretto svolgimento della campagna elettorale nella tv pubblica e, in generale, il sacrosanto – e tanto bistrattato quanto mistificato – articolo 21 della Costituzione che così recita: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Un articolo che suona superfluo ripetere e che, invece, va ribadito, preteso e difeso perché, come ogni diritto, è difficile da ottenere ma facilissimo da cancellare.
Non è un caso che nelle stesse ore Fratelli d’Italia abbia presentato, in Commissione Giustizia, una serie di emendamenti che prevede la pena detentiva per i giornalisti. L’ambito nel quale il relatore Gianni Berrino si sta muovendo è la discussione di un disegno di legge che vada a modificare le norme sulla diffamazione a mezzo stampa. Quella per cui, stando alle proposte avanzate, la reclusione andrebbe da tre mesi a un anno nel caso in cui venga dichiarato il falso o da sei mesi a due anni se il fatto costituisce reato. Ci sarebbe, poi, l’introduzione di una nuova fattispecie di illecito, questa dedicata esclusivamente ai giornalisti, che prevede il carcere da uno a tre anni per la diffusione di notizie false. Eppure, sul tema la Corte Europea dei diritti dell’uomo è chiara: il giornalista non può essere punito con la pena detentiva. Principio sancito, tra l’altro, dalla Corte Costituzionale di questo stesso Paese.
Che cosa sono, questi, se non tentativi di mettere a tacere l’informazione? Cosa sono, queste, se non minacce? Cos’è, questa, se non una pericolosissima deriva totalitarista? L’Italia, già 41esima al mondo per la libertà di stampa, rischia sempre più di veder comunicato il pensiero unico, un indottrinamento che rimanda a tempi di cui troppo scarsamente abbiamo memoria e altrettanto fortemente vi è nostalgia.
Non c’è niente che possa spaventare più di quello che viene da sempre chiamato quarto potere. Per questo, chi fa giornalismo nel nostro Paese deve ricordare il peso e la responsabilità di ciò che è, che rappresenta, che può scatenare. Il peso di essere non al servizio del padrone – come ormai succede – ma della comunità, che ha diritto di informazione e libertà di pensiero. Una libertà che è tempo di rievocare a sé, non solo come giornalisti, appunto, ma come cittadini. Quella che Erri De Luca chiama diritto di parola contraria. Un dovere prima di tutto.